Sconvolti per quanto successo a Torino prima, e a Firenze poi. Quindi coinvolti in discussioni, ragionamenti, commenti. O semplicemente raccolti nell’indignazione silenziosa, nell’incredulità, nella commozione. Gli ultimi sette giorni sono stati vorticosi per tante, tantissime persone. Perché vorticosa è stata la gravità dei fatti. In un’escalation che dal tentato pogrom di sabato scorso ha portato all’omicidio assurdo di Samb Modou e Diop Mor. Due vicende non certo legate: comunque frutto di un clima che si è drammaticamente manifestato ora, ma i cui segnali erano già presenti da tempo, come dicono, non da oggi, molti attivisti e osservatori. E come sanno le tante vittime di atti di discriminazione, sopruso, violenza razzista.
In molti – e a ragione – si è puntato il dito sui mezzi di comunicazione mainstream. Sulle loro responsabilità. Sul loro modo di distorcere l’informazione. Sul loro «razzismo inconsapevole», come ha ammesso in un ormai celebre messaggio di scuse un caporedattore de «La Stampa», domenica scorsa. Pensavamo che quel messaggio rappresentasse una cesura, una nuova consapevolezza. Ma ci siamo stupiti di nuovo martedì pomeriggio, scorgendo sul web il primo titolo proprio de «La Stampa», che ha proposto la discutibile espressione di «Far West a Firenze» (immagine che ricorda scontri a fuoco tra pistoleri, più che un barbaro omicidio). O scorrendo le prime edizioni online di alcuni quotidiani, che hanno chiamato «vu cumprà» i due cittadini senegalesi morti, ma «ambulanti» i loro colleghi italiani; che hanno negato per tutto il giorno, alle due vittime, un nome e un cognome (mentre hanno fatto a gara per poter dare quello di Casseri). O leggendo un lancio dell’Ansa, in cui l’assassino veniva definito «giustiziere». E dallo stupore siamo passati alla rabbia quando abbiamo letto ieri, su «Il foglio», l’elzeviro di Camillo Langone.
In molti siamo rabbrividiti di fronte ai farneticanti proclami neo-nazisti zeppi di «scorrerà altro sangue», «punire gli invasori», «immondizia negra». Come siamo rabbrividiti a scoprire che in Italia l’estrema destra, in questi anni di razzismo strisciante, è cresciuta, si è organizzata, si è radicata.
In molti siamo rimasti increduli di fronte ai commenti di chi non ha perso occasione – neanche in questi giorni – per sostenere che un po’ di colpa ce l’hanno anche loro: gli zingari, gli immigrati. Come se la causa del razzismo dovesse essere cercata nelle presunte colpe delle vittime, più che nei comportamenti dei razzisti. A me personalmente è capitato di rimanere sbacalito ieri – durante il programma «Coffee Break» su La7 – di fronte alla pochezza di argomenti e alla protervia di un onorevole leghista che pensava di essere – sbagliando vergognosamente tempi e contesto – in campagna elettorale. Come sono rimasto sbacalito in questi anni, insieme alla maggioranza di noi, di fronte alle dichiarazioni razziste di molti esponenti della Lega: da quelle sugli «immigrati» che sono una «malattia», a quelle che paragonavano gli «zingari» ai «topi», a quelle che evocavano i «forni crematori» per gli «immigrati». Frasi che, se pronunciate in un altro paese europeo, avrebbero costretto i loro autori a dimettersi, immediatamente, da qualsiasi carica pubblica. E che da noi invece sono state fatte passare come «folklore».
In molti abbiamo sorriso – a denti stretti – di fronte alla massima (e di nuovo Lega dixit) «il razzismo esiste per colpa del buonismo». Perché è vero: c’è stato troppo «buonismo». Ma non certo nei confronti dei migranti, a cui progressivamente sono stati negati dei diritti. Piuttosto, nei confronti dei razzisti, a maggior ragione di quelli «istituzionali». Che non avrebbero dovuto dire, ripetere, fare – impunemente – certe cose. Altro che cittadinanza a punti per gli «immigrati». La cittadinanza a punti la si dovrebbe dare a chi non rispetta la Costituzione, a chi disprezza la dignità delle persone, a chi istiga al razzismo.
Ecco. Prendo spunto dalla provocazione per rovesciare uno stato d’animo. Dopo la commozione, l’indignazione, la condanna dovremmo passare all’azione. All’orgogliosa risposta. Alla proposta. Deve esserci una svolta. Una svolta nel nostro modo di ragionare, di discutere di certi temi. Respingendo l’approssimazione, il confronto al ribasso e le battute da bar. Ed esigendo – a partire da noi stessi, sapendo che ci costerà fatica – una nuova qualità tanto degli argomenti quanto dell’argomentazione. Ci deve essere una svolta in chi fa, per chi fa informazione. Che deve dimostrare di essere all’altezza del proprio compito, dell’intelligenza dei lettori, della complessità della realtà. Ci deve essere una svolta nelle risposte politiche. Non più ricalcate – a sinistra – su quelle della destra. O basate sui sondaggi del giorno prima, che negli anni scorsi hanno imposto il mantra della «sicurezza», intesa soltanto come «ordine pubblico».
Ci deve essere una svolta, insomma, nel pensare alla società «multiculturale». Non si tratta di trovare la pietra filosofale. Basterebbe, per cominciare, partire dalle tante elaborazioni, sperimentazioni, iniziative costruite negli anni da chi ha lavorato sul territorio. E a cui spesso urlatori, piazzisti, improvvisatori – anche a sinistra – hanno sottratto visibilità sui media, nelle istituzioni. È una voce collettiva quella che va ripresa. Una voce che leghi le tante esperienze già svolte, i tanti contenuti già discussi, negoziati, condivisi: all’interno di un progetto di lunga durata, svincolato – finalmente – dall’emergenza (altra parola a cui ci siamo, colpevolmente, assuefatti, nella mistificante retorica di questi anni). Una voce che non soltanto si opponga alla barbarie, ma che senza timore, a testa alta, si esponga. Una voce che – sui razzismi e sui leghismi – progressivamente si imponga.