Pechino ha deciso che gli utenti di Weibo, l'equivalente cinese di Twitter (che è vietato) dovranno fornire le proprie generalità e non potranno usare più nicknames. Il governo vuole evitare che il social network diventi una valvola di sfogo per il malcontento dei cittadini
Weibo è in rapida crescita in Cina e come altrove nel mondo, il network è rapidamente diventato una delle poche valvole di sfogo per le critiche contro il governo o per la diffusione di notizie che Pechino preferirebbe tenere lontane dall’opinione pubblica, sia nazionale che internazionale.
Sul network, peraltro, funzionano già dei software di censura. Da ieri, uno degli argomenti censurati, per esempio, è quello relativo alle proteste nel villaggio di Wukan, nel sud della Cina, provincia del Guandong, dove da settembre gli abitanti sono in rivolta contro l’espropriazione di terre comuni, senza un adeguato indennizzo. Nei giorni scorsi la protesta ha assunto nuovo vigore perché un giovane attivista locale, Xue Jinbo, è morto in circostanze ancora tutte da chiarire mentre era detenuto in una stazione di polizia. Gli abitanti di Wukan hanno bloccato le strade che portano al villaggio e la loro protesta, grazie anche ai video diffusi su YouTube aggirando le maglie della censura, è arrivata fino alla stampa internazionale. Grave imbarazzo per il governo cinese, che teme l’effetto contagio. Gli abitanti di Wukan, a settembre, avevano dato vita a una rivolta durata tre giorni.
Le nuove regole, però, non si applicano uniformemente in tutto il Paese. Le società registrate a Pechino, come Sina Weibo (200 milioni di utenti), dovranno adeguarsi immediatamente, mentre quelle registrate in altre zone – come per esempio Tencent, registrato nella provincia di Shenzen – avranno ancora un po’ di tempo.
La “battaglia” per spingere gli utenti a fornire la loro vera identità sui network di microblogging è in corso da molto tempo. La preoccupazione ufficiale delle autorità di Pechino è evitare che gli utenti, nascosti dall’anonimato, diffondano “voci” e usino Internet per “scopi impropri”, un’espressione volutamente vaga che copre qualsiasi cosa poco gradita al governo, dalla pornografia alle notizie politicamente sensibili.
Non è difficile però vedere dietro le paternalistiche premure del governo la mano della censura. Uno dei casi più recenti, a settembre di quest’anno, riguarda Wang Lihong, 56 anni, attivista impegnata nella denuncia di casi di corruzione e di lamentele dei cittadini contro il governo, ha iniziato a usare Weibo per raccontare i casi raccolti. Denunciata per “aver istigato al disordine”, è stata condannata a nove mesi di prigione.
Se da un lato il Partito comunista incoraggia, con parsimonia, i funzionari del partito e delle istituzioni a usare i nuovi mezzi di comunicazione per essere più a diretto contatto con i cittadini, dall’altro la preoccupazione per l’uso libero della Rete – da sempre guardata con diffidenza da Pechino – si è esteso ai social network. Con alcuni effetti paradossali. Per bloccare le notizie sulla protesta di Wukan, per esempio, le autorità sono state costrette a “filtrare” tutti i post riguardanti la prefettura di Lufeng, dove si trova il villaggio ribelle, ormai da qualche giorno praticamente assediato dalle forze dell’ordine che però faticano a riprendere il controllo della situazione.
di Joseph Zarlingo