Aveva scritto, qualche mese fa, già pesantemente segnato dalla malattia: “Abbiamo lo stesso compito di sempre. E cioè dire che non esistono soluzioni finali; che non c’è una verità assoluta, che non c’è un leader supremo”. Christopher Hitchens, morto ieri notte a Houston, Texas, ha mantenuto sino all’ultimo il convinto razionalismo ateo e laico che ha segnato tutta la sua vita intellettuale. Nel 2010 aveva scoperto di soffrire di un tumore inguaribile all’esofago. Nonostante l’avanzare della malattia, e le condizioni fisiche sempre più precarie, era partito per un tour di letture e presentazioni negli Stati Uniti, discutendo della malattia e della morte probabile.
“Non ci sarà più un altro Hitchens. Un uomo di intelletto feroce, vibrante sulla pagina così come al banco del bar”, ha detto Graydon Carter, il direttore di Vanity Fair, la rivista per cui Hitchens ha spesso collaborato. In effetti pochi intellettuali negli ultimi quarant’anni sono riusciti a sollevare tante polemiche e discussioni come questo giornalista, saggista, critico, ammiratore entusiasta di George Orwell, Thomas Paine, Thomas Jefferson, implacabile nemico di politici e personaggi pubblici come Henry Kissinger, Bill e Hillary Clinton, Madre Teresa di Calcutta. Il suo avvicinamento agli ambienti neocon, dopo l’11 settembre 2001, aveva ulteriormente nutrito polemiche e clamorose rotture con gli ambienti della sinistra anglo-americana da cui proveniva.
Figlio di militari di carriera, educato in scuole private prestigiose e poi laureato a Oxford, Hitchens muove i primi passi della sua carriera intellettuale proprio negli ambienti della sinistra inglese. Prende parte ai movimenti pacifisti e libertari degli anni Sessanta, entra nel partito laburista (da cui verrà espulso, nel 1967, per aver criticato l’appoggio del premier Harold Wilson alla guerra in Vietnam); quindi, sotto l’influsso del dissidente sovietico Victor Serge, si avvicina al trotskismo e al socialismo antistalinista del Socialist workers party.
Sono però gli interventi per “New Statesman” e poi “The Nation” (dopo il trasferimento negli Stati Uniti, nel 1981) a fare di Christopher Hitchens uno degli intellettuali di riferimento della sinistra politica. La sua vena arguta, polemica, irriverente lo porta a criticare soprattutto la politica estera americana, l’amministrazione di Ronald Reagan, i disastri dell’imperialismo Usa in Centro e Sud-America. Viaggia, negli anni, in più di 60 paesi, dall’Irlanda del Nord alla Grecia, e poi Cipro, Portogallo, Spagna, Argentina. Bevitore e fumatore incallito, Hitchens viene definito “il mio delfino” da Gore Vidal e offre a Tom Wolfe il modello per il carattere di Peter Fallow nel ‘Falò delle Vanità’.
Sono però soprattutto due biografie a fare di Hitchens un autore internazionalmente noto. In La posizione della missionaria, lo scrittore dipinge Madre Teresa di Calcutta non come una “santa” impegnata nell’aiuto ai più deboli, ma come la rappresentante cinica e avida di denaro di un cattolicesimo retrogrado e ignorante. Processo a Henry Kissinger è un’analisi spietata del coinvolgimento dell’ex-segretario di stato americano in una serie di crimini di guerra e contro l’umanità in Indocina, Bangladesh, Cile, Cipro, Timor Est. Anche Bill Clinton, il deputato inglese George Galloway, l’attore Mel Gibson, la pacifista Usa Cindy Sheehan diventano, negli anni, oggetto delle sue distruttive ricostruzioni.
Dopo il settembre 2001, si consuma la sua ottura con il passato. E’ la feroce polemica anti-religiosa di Hitchens (riassunta in un altro libro celebre, “Dio non è grande”) a portarlo verso posizioni fortemente anti-islamiche, che evidenziano e mettono in guardia contro la minaccia di Al Qaeda e del fondamentalismo islamico. La sua definizione di islamo-fascismo (in cui entra anche il profondo turbamento provato ai tempi della fatwa lanciata contro l’amico Salman Rushdie) lo fa litigare, e poi rompere clamorosamente, con molti esponenti della sinistra americana. Hitchens esce da “The Nation” dopo un famoso scambio di lettere pubbliche con Noam Chomsky sulla risposta da dare nella “war on terror”.
L’appoggio alle guerre in Afghanistan e Iraq, il sostegno alle candidature di George W. Bush nel 2000 e 2004, il giudizio positivo sulle misure liberticide del “Patriot Act”, la legge antiterrorismo, approfondiscono ancor di più la frattura. Un giornalista e saggista liberal, Alexander Cockburn, pubblica sul suo sito un attacco a Hitchens dal titolo: “Lettera a un polemista bugiardo, egoista, cialtrone, ubriacone, fumatore, opportunista, cinico”. Neppure l’appoggio alla candidatura di Barack Obama, nel 2008, dopo un riconoscimento degli errori e dei limiti del governo di Bush, riuscirà a riavvicinarlo agli antichi compagni di strada.
Illuminista e razionalista, Hitchens lascia la sua impronta più forte, oltre che nel genere del pamphlet, soprattutto per la continua e indefessa professione di ateismo e rifiuto di ogni visione teologica e assoluta. Nella sua autobiografia, “Hitch-22” (che ha presentato in molte parti degli Stati Uniti, dopo aver scoperto di soffrire di un male incurabile), ha scritto: “Personalmente, voglio fare una morte attiva e non passiva. Voglio essere lì, guardarla negli occhi e fare qualcosa, quando arriverà”.