Una settimana fa, il 9 dicembre, le scuole dell’obbligo di Milano sono state chiuse per il mostruoso livello degli inquinanti nell’aria. Il Fattoquotidiano ne ha parlato diffusamente insieme a poche altre testate. La grande stampa di opinione ha invece  relegato l’evento nelle pagine di cronaca: forse per non impressionare l’opinione pubblica.

Scelta singolare, perché ogni giorno veniamo invece terrorizzati sulle vicende delle montagne russe dello stato dell’economia. Forse non abbiamo i soldi per gli stipendi; no, per le tredicesime; forse crolla l’euro; forse l’economia. Per i polmoni dei nostri bambini non c’è la stessa trepidazione. C’è un salto di attenzione: la monocultura dell’economia ha sommerso tutto, i bisogni delle persone vere, la salute delle fasce d’età più esposte.
Eppure quei livelli di inquinamento dicono che oltre ai problemi –veri- della crisi economica e finanziaria ci si dovrebbe preoccupare anche del futuro dei bambini e degli anziani, ricercare le più appropriate tecnologie in grado di abbattere l’inquinamento, investire risorse economiche e intellettuali. Cambiare insomma nel profondo le nostre città invivibili e avvelenate.

Ma di questo non c’è traccia, forse perché si vuole nascondere il tragico fallimento della cancellazione delle regole imposto dall’ideologia liberista. In questi ultimi venti anni ci hanno fatto credere che il “mercato” avrebbe risolto ogni problema della vita urbana. Mai promessa è stata più falsa! Il diluvio di cemento e asfalto che ha sommerso l’Italia ha infatti dilatato senza limiti le città, le ha rese deformi. Ha aggravato la vita dei cittadini distruggendo l’ambiente e il paesaggio.

E, ciò che ancor più grave, sta minando alla radice la vita stessa delle città.  Nella Torino degli anni ’60 insieme ai cartelli “non si affitta ai meridionali” si era messo in moto un grande processo di integrazione basato sulla scuola pubblica e sui servizi sociali. Nella Firenze di Giorgio La Pira, sempre anni ’60, si mise in moto un unanime sostegno alla vertenza delle officine Pignone minacciate di chiusura e lo stesso sindaco fu in prima fila nella battaglia per dare una casa ai fiorentini, prendendo la decisione di requisire alloggi vuoti per darli agli sfrattati.
Le città di quegli anni avevano dunque un senso di appartenenza che, al di là della collocazione sociale di ciascuno gruppo, fornivano servizi, assistenza e integrazione sociale. Erano insomma i luoghi della convivenza pubblica,  e come tali venivano percepite da tutti.

Martedì scorso un “mostro” ha ucciso a freddo due senegalesi nei mercati rionali fiorentini. Sabato scorso un nutrito manipolo di “mostri” ha messo in atto un tentativo di pogrom contro i rom torinesi accusati di violenza contro una minorenne bugiarda. Questi ultimi due accadimenti, analogamente alla chiusura delle scuole milanesi, avvengono in un vuoto di indifferenza e scetticismo. Come se la concezione stessa della città come luogo pubblico fosse stata spazzata via. E’ questo l’interrogativo più urgente cui dobbiamo dare una risposta. Dobbiamo cioè chiederci  se i venti anni di liberismo urbano messi entusiasticamente in pratica dai governi nazionali e locali non abbiano minato alla  radice  la città pubblica, il bene comune per eccellenza.

Nel darci una risposta, ci accorgeremmo allora che i protagonisti di Torino e Firenze non sono “mostri”: sono i frutti avvelenati della devastazione culturale. Esattamente come le scuole immerse in una nuvola di veleni. La città pubblica è stata smantellata sistematicamente. Le scuole dei piccoli centri sono state chiuse privandoli spesso dell’unica occasione di socializzazione. Gli istituti scolastici delle grandi città vivono in perenne stato di instabilità per le carenze di manutenzione e di personale. I servizi sociali sono stati falcidiati dovunque “perché non ci sono i soldi”. Questo mantra non vale per il servizio sanitario nazionale che è stato invece privatizzato affidandolo (a nostre spese) alle caritatevoli mani dei Don Verzè, degli Angelucci e dei Tarantini di turno. I trasporti urbani dal prossimo gennaio saranno ulteriormente tagliati fino quasi ad annullarli.

Ciascun cittadino è ormai solo nell’affrontare la vita: la rete sociale del welfare è stata cancellata. Le città sono state ridotte in luoghi anonimi che servono soltanto per far arricchire la proprietà fondiaria. Stanno in questo devastante deserto le radici della diffusa indifferenza. E stanno sempre qui i rischi dell’accendersi di una ulteriore spirale di cieca violenza. Gli ingredienti ci sono tutti. La crisi economica è sempre più senza uscita e aumenteranno le disuguaglianze sociali e le fasce di emarginazione. Senegalesi,  rom e tutto il mondo dell’immigrazione dai paesi poveri saranno ancora di più di oggi facili bersagli per tutti coloro che vogliono far dimenticare che le origini della crisi stanno in un sistema economico ed urbano perverso che non si ha il coraggio di arrestare.

Tornare ad interessarsi delle città come beni comuni è il solo modo per uscire dalla crisi che ci sta travolgendo. Non si tratta, come affermano molti, di alimentare la spesa pubblica senza scopo: si tratta al contrario di investimenti preziosi perché cadono in un momento di crisi e possono indirizzare e favorire gli investimenti privati. A patto di trovare il coraggio di fermare l’espansione urbana e decidere per sempre che le aree agricole non sono il luogo privilegiato delle scorribande di  un’economia di rapina. Sono le più preziose risorse per il futuro delle giovani generazioni.

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