La ministra della Giustizia Paola Severino era partita bene: aveva rimosso da capo dell’ufficio legislativo la signora Augusta Iannini in Vespa, una sorta di Gromyko in gonnella all’italiana essendo passata indenne da Castelli a Mastella, da Al Fano a Palma, maneggiando alcune fra le più invereconde leggi porcata della storia del diritto e anche del rovescio; e aveva pure messo alla porta quella squisita personcina di Arcibaldo Miller, il magistrato che capeggiava gl’ispettori, perseguitando colleghi perbene anziché ispezionare se stesso. Ora però la Guardasigilli cade, anzi crolla sul solito problema del sovraffollamento delle carceri, escogitando “soluzioni” fra il demenziale e il tragicomico.
Prima la solita pantomima del braccialetto elettronico, subito accantonata fra le risate generali. E ora l’ennesimo indulto mascherato per aggirare la Costituzione che impone, per i provvedimenti di clemenza, la maggioranza dei due terzi: una trovata che riprende, peggiorandolo, l’indultino di Al Fano, che l’anno scorso consentì ai circa 4 mila detenuti con residuo pena fino a 12 mesi (fuorché per delitti particolarmente efferati) di uscire dal carcere per gli arresti domiciliari. Ora il tetto dei 12 mesi sale a 18 e così, mandando a casa anzitempo altri 3500 carcerati, si spera di alleviare un pò la pressione nei penitenziari, imbottiti di 68 mila detenuti su 45 mila posti-cella. Inoltre la ministra pensa di trattenere nelle camere di sicurezza delle questure, senza passare per il carcere, i 21-22 mila detenuti in custodia cautelare che attendono il processo per direttissima. Così il congestionamento si trasferirà dalle carceri alle questure, dove già non si sa dove mettere la gente e soprattutto come gestirla, visti i vuoti di organico e la penuria di mezzi (mancano persino i soldi per la benzina e la riparazione delle volanti).
È la solita politica all’italiana che, non potendo o volendo risolvere i problemi, li sposta nello spazio o nel tempo, per rinviarne sine die la soluzione, possibilmente accollandola a chi verrà dopo. Anche in tema di carceri, il governo tecnico manifesta la più sconcertante continuità con quelli politici che l’hanno preceduto. Nella Prima e nella Seconda Repubblica. Seguita cioè a muoversi come se le carceri scoppiassero per i troppi detenuti, anziché per i troppi delinquenti e i pochi posti-cella: tutti gli altri Paesi europei hanno percentuali di carcerati analoghe alla nostra, e non conoscono fenomeni come la mafia, la camorra e la ‘ ndrangheta (non conoscono nemmeno una corruzione e un’evasione fiscale di massa come le nostre, ma queste sul sovraffollamento non incidono, visto che nelle nostre carceri non c’è un evasore e i tangentari si contano sulle dita di un monco).
Dunque si continua a non costruire nuove carceri, a non combattere con misure preventive i fenomeni criminali dilaganti, a non depenalizzare reati inutili e a non cancellare le norme – su droghe, immigrati, microcriminalità e recidiva (la folle ex-Cirielli) – che negli ultimi anni hanno moltiplicato inutilmente la media dei detenuti. Poi ogni tanto si scopre che il sistema produce un numero di reclusi insostenibile dalle strutture esistenti e si adotta la “soluzione scolastica” alla Mastella: chi disturba, fuori! Non potendo fortunatamente ricorrere all’ennesima amnistia, visto che fra poco si vota, ecco i surrogati e i pannicelli caldi: si svuota il mare col cucchiaino salvo ripiombare, fra qualche mese, nell’eterna “emergenza”. Già oggi il condannato, per scontare la pena in carcere, deve avere una condanna superiore ai 3 anni; che diventano addirittura 6 se ha commesso il delitto prima dell’indulto di 3 anni del 2006; con l’indultino Al Fano, per finire dentro per un delitto di 5 anni o più fa, la pena doveva essere di almeno 7 anni; e ora, con l’indulticchio Severino, anzi Morbidino, la soglia sale oltre i 7 e mezzo. Se sentite ancora un ministro invocare la “certezza della pena”, prendetelo a ceffoni. Tanto, mal che vi vada, finite carcerati a casa vostra.
Il Fatto Quotidiano, 17 Dicembre 2011