Per fortuna il teatro non è soltanto una replica della televisione. Esiste una scena nella quale non c’è spazio per le soubrette o per i numerosi fenomeni da tubo catodico, che, per carità, hanno un loro pubblico appassionato e fedele, che ha tutto il diritto di applaudire i vari comici, attori e comparse tv. Ma non si deve dimenticare che il teatro è altro e che sarebbe bene parlarne in modo diverso da come si fa troppo spesso. Negli ultimi giorni, per esempio, mi è capitato di assistere a Roma a due spettacoli molto distanti tra loro, forse nemmeno paragonabili, per la differente impostazione, per l’uso di linguaggi lontani, per la scelta di porsi in modo opposto nei confronti della tradizione. Eppure, anche nella loro divergenza indiscutibile, entrambi mi hanno fatto riflettere sulla centralità della parola sulla scena.
Vedendo Il ritorno di Sergio Pierattini, con la regia di Veronica Cruciani al Piccolo Eliseo (in tournée), e la Trilogia degli occhiali, di cui Emma Dante è regista e drammaturga (in scena al Palladium fino al 23 dicembre), si ha la piacevole sensazione di un’alchimia perfetta. Quella di un teatro destinato ad essere ricordato; in cui le diverse componenti, dalle parole ai gesti, dalle scene alle musiche, si combinano con equilibrio e purezza. Ma quello che mi sembra interessante sottolineare è il rapporto che questi spettacoli intrattengono con il testo di partenza, che non è mai un pretesto.
Nel caso di Pierattini, che è più conosciuto per il grande successo della Maria Zanella (interpretato da Maria Paiato e dedicato all’alluvione del Polesine), si nota il recupero delle strutture del teatro classico, in cui la forza della parola letteraria non è mai sminuita, grazie a una messinscena sapiente e misurata. Il piacere di una storia forte e ben scritta si coniuga con il gusto per una regia sensibile alle sfumature e intenta a valorizzare i gesti più piccoli, senza mai prevaricare con la presenza scenica degli attori gli snodi del testo. Testo che torna al classico anche nella scelta dei temi, tuffandosi nel groviglio di passioni di una famiglia del Nord Italia, ritratta nelle quattro mura della casa. Ma Il ritorno sa essere anche molto radicato nel presente, perché Pierattini si confronta con i temi tragici del lavoro nero e dell’immigrazione.
Il salto dalla provincia bergamasca al Sud di Emma Dante è segnato da un cambio radicale di prospettiva, verso un teatro che smonta il testo tradizionale, per usare la parola come segno e non necessariamente come veicolo di un messaggio. Nella Trilogia degli occhiali, che si articola in tre spettacoli autonomi, ma legati tra loro da un discorso comune sull’isolamento e sulla difficoltà di vedere il mondo (Acquasanta, Il castello della Zisa e Ballarini), si ritrova la tradizione del teatro dei Pupi, che però viene reinterpretata alla luce di una drammaturgia del corpo. Emma Dante lo definisce «un teatro di necessità», che pone domande allo spettatore e non lo intrattiene. Anzi, semmai lo provoca, lo infastidisce, lo costringe a guardarsi dentro, mentre segue i sussulti elastici dello Spicchiato (in Acquasanta), le visioni deliranti di Nicola (Il castello della Zisa) o ancora la danza carnale alla ricerca della memoria dei vecchi Ballarini.