Le pensioni. Non ci sono molti modi di procurare le risorse necessarie per pagarle: assicurazioni private; contributi prelevati dal salario e accantonati; imposte e tasse. L’assicurazione privata non è una soluzione praticabile: molti lavoratori, imprevidenti o impediti a farlo dalla modestia del loro reddito o da emergenze disgraziate, non pagherebbero i premi e si troverebbero nei guai quando non potessero più lavorare. E aggravi fiscali non sono accettati dai cittadini: “Io penso alla mia pensione e gli altri pensino alla loro”, questa sarebbe la reazione di tutti. Resta il metodo contributivo: quello che il lavoratore percepisce per la sua attività viene decurtato di una certa percentuale, il contributo pensionistico; e questo gli sarà restituito quando avrà smesso di lavorare e non potrà più guadagnarsi da vivere. Veramente in Italia non funzionava proprio così e infatti le pensioni erano una voragine; ma, ora che di soldi non ce n’è più e siamo a rischio di bancarotta, andrà in questo modo.
A questo punto bisogna fare due calcoli.
1. Più di tanto dal salario non si può prelevare: se uno guadagna 3.000 euro al mese, gliene puoi prendere 1000: il resto gli serve per vivere.
2. Accettando che la pensione sia inferiore al salario, per esempio 2.000 euro al mese (se si pretende che sia più alta le cose peggiorano), è evidente che occorrono due mesi di contributi per fare un mese di pensione. Se si vuole una pensione più cospicua o si aumentano i contributi oppure si deve calcolare un periodo di tempo più lungo; nell’esempio, per avere 2.500 euro al mese di pensione servirebbero 2 mesi e mezzo di contributi.
3. Siccome per fortuna si vive molto più a lungo dei nostri nonni e anche dei nostri padri (sembra che la media sia 80 anni), ipotizzando che uno lasci il lavoro a 60 anni, e restando nell’esempio di un salario di 3.000 euro al mese, per pagargli la pensione per 20 anni bisogna che abbia lavorato 40 anni; 50, per la pensione più alta. Quindi dovrebbe aver cominciato a lavorare a 20 anni o addirittura a 10.
4. In genere i salari sono più bassi, diciamo 2.000 o 1.500 euro al mese. Questo significa che per avere una pensione di 1.000 euro (con meno non si vive o si vive molto male), il rapporto tra contributi e pensione sale a 3 a 1, magari anche di più: 3 mesi di contributi per un mese di pensione o, che ci fa capire meglio come stanno le cose, 60 anni di lavoro per 20 di pensione.
Quando deve cominciare a lavorare uno per andare in pensione a 60 o anche 65 anni? Tutto questo non è discutibile, si tratta di fatti. Andare in pensione prima di 65 anni non si può; e anche così resta un buco grosso assai. Naturalmente, quando si scende dalla teoria alla realtà, dai calcoli alle persone, dalla manovra alle famiglie, le cose sono diverse. E può venire la tentazione di trovare altre soluzioni. Solo che non ce ne sono. L’unica è scaricare sui cittadini più favoriti l’onere di contribuire alle pensioni di quelli più poveri; insomma aumentare le imposte sui redditi medio alti; e, se si tratta di imposte patrimoniali, cioè legate ai beni e non ai redditi, incrementarle su quelli di maggior valore. Ma non funziona.
In effetti così (a parte la patrimoniale) è stato fatto fino adesso; solo che i ricchi e i medio ricchi non hanno collaborato: hanno evaso, della solidarietà se ne sono battuti. Anche chi, a parole, condivide il dramma di famiglie ai limiti della sopravvivenza, di pensionati da 800 euro al mese; anche chi riconosce che “qualcosa bisogna fare” (e non sono poi così tanti); quando si tratta di accettare un contributo di solidarietà (permanente, non un gesto generoso una tantum), quando si tratta di accettare un aumento dell’imposizione fiscale, tutti protestano; e come se protestano. Sì, le pensioni, i meno favoriti, è giusto, fate qualcosa. Ma “not in my backyard”, non nel mio giardino.
Certo, una classe politica seria e lungimirante (dunque non la nostra) potrebbe ispirarsi a criteri di giustizia sociale; finora, non è successo. Però il governo Monti ha la sua grande occasione; può, entro certi limiti, infischiarsene del consenso elettorale: il paziente sta morendo, la medicina è amara; gliela propina lo stesso, il paziente guarisce e si spera che non ritorni dai ciarlatani che lo curavano prima, dandogli medicine dolci e inefficaci. E se poi, una volta guarito, ci ritorna, beh, “quos perdere vult deus dementat”, gli dei fanno impazzire quelli che vogliono perdere. Allora, se Monti, Fornero e gli altri tecnocrati accettassero questo punto di vista e volessero scaricare su alcuni cittadini una parte del debito pensionistico di altri, quelli più poveri, come potrebbero fare? Semplice, combattendo seriamente l’evasione fiscale. Dal che deriverebbero più risorse e la concreta possibilità di innalzare la pressione fiscale sui cittadini più abbienti.
Bisogna capire che incrementare le aliquote sui redditi più alti non serve a niente; il “rimedio” (chiamiamolo così) lo aveva già trovato B e lo aveva spiegato a tutti i cittadini a reti unificate: “Quando la pressione fiscale supera il 35 % l’evasione è legittima difesa”. La pressione fiscale può aumentare solo se non è possibile evadere; altrimenti l’aumento è criminogeno, nel senso che induce all’evasione. Aspettando di ritornare un paese civile bisogna avere pazienza; è passato meno di un mese da quando Monti ha sostituito B & C e ha esautorato (speriamo) l’intera classe politica. Per disfare 15 anni di malgoverno ci vuole un po’ di più.
Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2011