Il ministro Fornero cerca la tregua con i sindacati: "Salari da aumentare. Si può discutere di tutto". La Cgil prende tempo, mentre la Cisl di Bonanni avverte: "Si sta minando la coesione sociale"
“Da parte mia non c’e presa in giro, ma solo il tentativo di salvare il Paese”. Si difende il ministro Elsa Fornero, dopo le polemiche degli ultimi giorni partite dall’intervista rilasciata al Corriere della Sera: “Sono stata ingenua”, ma i “giornalisti sono bravissimi a tendere delle trappole”. Per questo ribadisce: “Non ho in mente, ora, nulla in particolare che riguardi l’articolo 18”. Un chiarimento indispensabile, dopo lo scontro frontale tra governo e sindacati. Cgil e Cisl, provano a spostare il terreno di confronto. È il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, a “sfidare” la ministra del Welfare “a discutere come alzare il salario ai flessibili” per andare davvero “incontro ai giovani”. Una modifica dell’agenda accolta da Elsa Fornero, che si dice d’accordo “in linea di massima” ad aumentare i salari “perché sono bassi, non è una cosa che ci sfugge”. Il silenzio della Cgil va interpretato come attesa per le sue prossime mosse mentre per Bonanni la riforma dell’articolo 18 “mina la coesione sociale”. Il clima preoccupa anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Si discuta senza rigide pregiudiziali, battute sprezzanti e contrapposizioni semplicistiche”. Ma poi ha aggiunto: “È necessario dare seriamente la priorità alle condizioni dei non rappresentati, dei giovani senza lavoro”.
A giudicare dal dibattito in corso sembra che l’articolo 18 sia il provvedimento a cui i lavoratori facciano più spesso riferimento. Così come sembra sia un baluardo insormontabile per poter licenziare “più facilmente” e agevolare quindi i giovani precari. I dati smentiscono questa tesi. La libertà di licenziare esiste ed è praticata largamente. Secondo i dati Istat, tra il 2008 e il 2010 sono andati perduti 532 mila posti di lavoro e ben tre quarti (404 mi-la unità) nel settore industriale. Il numero è solo una piccola porzione del fenomeno. Se si guardano i dati, appena resi noti dall’Inps, sui beneficiari di trattamenti di disoccupazione, mobilità e cassa integrazione nel 2010 si scoprono circa 4 milioni di persone (3, 925 milioni per l’esattezza), messi fuori dal ciclo produttivo, un terzo dei lavoratori dipendenti assicurati dall’istituto di previdenza.
A fronte di tali dati spiccano invece i ricorsi giudiziari che riguardano l’articolo 18. Non esistono statistiche ufficiali, ma secondo fonti sindacali si può stimare in circa 500-600 unità, i reintegri sul posto di lavoro in seguito a poche migliaia di vertenze. Anche se la struttura industriale italiana è composta prevalentemente da imprese sotto i 15 dipendenti (l’ 83, 9 per cento non arriva a 10 addetti) va considerato che nelle imprese sopra i 50 dipendenti è impiegato circa il 40 per cento della manodopera industriale. Come spiega Carlo Guglielmi, giurista del Forum diritti-lavoro, “l’articolo 18 serve perché c’è e non perché si utilizza in aula giudiziaria”. Funziona da deterrente e costituisce un “potere contrattuale dei lavoratori che, contrariamente a quanto si crede o viene detto, giova di più ai precari”. Il lavoratore precario, infatti, nel far valere un suo diritto nei confronti di un’impresa con più di 15 dipendenti, può solo provare la regolarità della propria prestazione e quindi essere equiparato a un contratto a tempo indeterminato beneficiario dell’articolo 18. In quel caso la sua vertenza giudiziaria è molto forte. “Se non ci fosse più l’articolo 18, far valere un contratto a tempo indeterminato non rappresenterebbe più niente, perché il datore di lavoro risolverebbe comunque il rapporto di lavoro”. La tesi è confermata anche dal Nidil-Cgil, la categoria che si occupa del lavoro atipico e precario. In prossimità della scadenza del “Collegato lavoro”, la legge che ha ristretto in soli 60 giorni il margine per poter impugnare i contratti considerati irregolari, solo alle sedi della Cgil, sono affluite circa 10 mila denunce. Altrettanto agli altri sindacati.
E che il problema sia proprio quello di sterilizzare i margini di iniziativa dei lavoratori più deboli, riducendone drasticamente il potere contrattuale, era chiaro già in quella legge voluta dal ministro Sacconi. Se la normativa precedente garantiva qualche anno di tempo a chi voleva far causa al proprio datore di lavoro, il Collegato lavoro ha ridotto questo intervallo a soli 60 giorni (a fine mese, tra l’altro, scadono i termini per i contratti in essere al novembre 2010). Il Collegato ha poi introdotto due nuove norme che limitano i “poteri” dei lavoratori precari: la prima prevede che i contratti di lavoro vengano “certificati” da un’apposita commissione al momento della loro stipula impedendo così un eventuale ricorso al giudice. La seconda, l’arbitrato, dà invece la possibilità al datore di lavoro di inserire nel contratto una clausola che dice che in caso di problemi il dipendente si rivolgerà a una commissione arbitrale invece che ai giudici. Se si toglie l’articolo 18 non resta davvero più nulla.
da Il Fatto Quotidiano del 21 dicembre 2011
(aggiornato dalla Redazione Web alle 18.56)