Il buon Peter Gomez mi chiama in causa: “Qualche giorno fa Andrea Scanzi, un collega che sono orgoglioso e felice di ospitare, ha scritto un interessante post. Il suo articolo, che invito a rileggere, mi ha divertito, mi ha fatto riflettere, ma mi ha convinto solo in parte. Una cosa credo infatti di averla imparata durante questo lungo e affascinante anno e mezzo trascorso sul web. Scrivere o intervenire tramite internet equivale, per molti versi, a parlare davanti a una folla in una piazza pubblica o nel buio di un teatro. Chi decide di farlo accetta un rischio: quello di essere (magari ingiustamente) fischiato. Se il pericolo fischi (o pomodori) lo spaventa, può sempre scegliere di non aprire bocca“.
Dovrei – ringraziamenti e stima ricambiata a parte – controbattere, ma non posso farlo. La penso pressoché esattamente come lui.
L’articolo sugli “Eiw” (Eterni Incazzosi da Web) era un gioco. Si riferiva a una minoranza (rumorosa). Aveva innegabili fondamenti di verità, ma nasceva come articolo ironico. Mi stupisce (un po’) e lusinga (molto) il successo che ha avuto, ma in gran parte era cazzeggio. Non diamogli quel surplus di ferocia che non aveva.
Sapevo che alcuni lo avrebbero preso a pretesto per lamentare censure e snobismi. Tentando di farmi passare per “quello che ce l’ha con la Rete“. Figuriamoci. Ho così tanta paura dei “fischi”, o dei “pomodori”, che di blog ne ho tre, interagisco nei social network e di articoli controcorrente ne scrivo – come Peter – di continuo.
Molti giornalisti temono la Rete. Per questo hanno esultato di fronte alle mie parole. Li ringrazio, ma a me il web diverte: scrivere solo su cartaceo ti faceva sentire intoccabile (i risultati si vedono: basta entrare in certe redazioni, piene di tromboni e carampane), ma personalmente mi sarei annoiato oltremodo.
La Rete ha mille pregi. Non dimentica, non perdona, non nasconde. Quasi tutti coloro che scrivono sul Fatto, ci sono arrivati (anche) perché consapevoli delle potenzialità del web. E della esigenza di uno spazio libero.
Poi, certo, tra me e Peter esistono dei distinguo. E meno male. Gomez parla dei blog come qualcosa di assimilabile a una piazza, ma – persino al buio di un teatro – ogni folla è comunque composta da volti e gesti riconoscibili. Il contatto è diretto: ci si espone personalmente. E’ richiesto coraggio. Vuoi insultarmi? Bene. Però mettici la faccia, l’anagrafe. E – se le trovi – qualche motivazione. Denigrare un autore davanti al monitor, magari sognando di essere al suo posto, è mesto. E inutile. E noioso. Yeownnn.
Vale lo stesso per il “duropurismo“: è ovvio che io preferisca la Costamagna a Nicola Porro, anche solo per un fatto edonistico-maschilista, ma chi mi dice che gli integerrimi demolitori di Luca Telese non avrebbero ipotecato casa e famiglia pur di essere al suo posto? Chi mi assicura che, nella vita reale, non facciano lavori ben più “compromettenti”?
L’incazzoso (una minoranza del web) rispetta oggettivamente dei cliché. In parte citati nell’articolo. L’invidioso, il rancoroso, il “chi ti paga?”. Sempre le stesse critiche. Ne esistono altri. Non ultimo il “Tunonpuoiparlare“, secondo cui – per esempio – un giornalista non può scrivere di musica se non è musicista. Quindi Gomez non può parlare di Berlusconi, perché non ha mai fatto il premier o (che io sappia) un bunga bunga? Ma via, su. Oppure ci sono i professionisti dell’Ot, del fuori-tema. Un altro classico. Ecco: tutti questi internauti (anonimi), si possono sfottere o sono intoccabili?
E’ poi puerile anche la storia del “voi censurate“. Un blog personale (non quelli del Fatto, dove la moderazione è affidata a una redazione senza interpellare gli autori), e più ancora una bacheca privata Facebook, sono prolungamenti di casa tua. E in casa tua fai entrare chi ti pare. Se sono regole “sbagliate”, pazienza: è la dittatura privata, baby, mi hai cercato tu e se non busserai di nuovo alla mia porta, credimi, me ne farò una ragione.
Facciamo cadere anche un altro falso mito. Il “fallimento” di un blogger non è ricevere insulti: è non ricevere nulla. Il detto “bene o male, l’importante è che se ne parli“, è qui comicamente sacro. Soprattutto per la Rete.
Il successo di un post risiede – un po’ come l’Auditel – nel numero di I Like e commenti. Il 99% degli internauti se ne frega del dibattito, guarda solo i numeri. Tre commenti? Uhm. Trenta commenti? Bene. Trecento commenti? Figo. Funziona così.
Un consiglio agli incazzosi: se volete ferire un blogger, non commentatelo (se ci riuscite).
Peter scrive: “Riportare tutte le notizie che siamo in grado di trovare, o valutare, e dare modo ai nostri blogger di esprimere punti di vista, possibilmente ben argomentanti, anche in forte contrasto tra loro“. Mi associo.
E’ uno spazio vivo, fattivo, divertente. Grazie per gli stimoli, le critiche, gli abbracci, le sportellate. Ne verranno altri.