E’ inevitabile. Tutte le volte che si annuncia una riforma del mercato del lavoro, si riapre l’annosa (e stantia) discussione sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Da quando è cominciata la crisi (4 anni fa), le politiche economiche nazionali (prima del duo Berlusconi-Tremonti ora del duo Monti-Napolitano) sono state proposte per coniugare rigore e crescita (l’equità è già dimenticata), secondo la classica logica dei due tempi: prima il rigore e poi la crescita.
Ciò che è sempre successo è che si è praticato solo rigore (nel 2011 le 3 finanziarie avranno un’incidenza di quasi 100 miliardi di euro pari a oltre il 5% del Pil) e che il secondo tempo (quello della crescita) non si sa se mai comincerà. Tutti ne sono coscienti, a cominciare dai sindacati e dallo stesso governo. Per questo dalla crisi di agosto è cominciata una gran cassa mediatica ed ideologica che vuol far intendere che le politiche della crescita sono sinonimo di politiche del lavoro e che le politiche del lavoro significano riforma del mercato del lavoro per creare più competitività, dar lavoro ai giovani e, audite, audite,risolvere il problema della precarietà! Condizione necessaria perché tale sogno, oggi interpretato dalla ministra Fornero e dal suo consulente Ichino, si possa realizzare è mettere mano all’art. 18.
Che cosa c’entri l’art. 18 con la precarietà e la crescita risulta un mistero.
L’art. 18 (che vieta il licenziamento senza giusta causa e obbliga il reintegro o il pagamento di un indennizzo per il lavoratore ingiustamente licenziato) si applica alle imprese con più di 15 addetti, interessa poco più del30% della forza-lavoro, di cui la metà (3,4 milioni) nel settore pubblico. Tra questi, ne sono esclusi tutti coloro che hanno un contratto precario (interinale, a termine, collaborazione, stage…). Inoltre, con la legge 223 del 1991, sono stati permessi i licenziamenti collettivi tramite l’istituto della mobilità, strumento utilizzato in tale quantità tanto da dover introdurre forme di casse integrazione in deroga. Non si può quindi affermare (come molti fanno in malafede) che in Italia non si possa licenziare, anche nel settore pubblico, dove, tramite il subappalto a cooperative di servizi e la creazione di SpA per la gestione dei beni di pubblica utilità, il totale dei dipendenti pubblici ha subito un ridimensionamento (basti pensare al Comune di Milano oppure a Trenitalia con la soppressione dei treni notturni). Aggiungiamo che, ad esempio in un’area industriale come quella milanese dove dei 200.000 giovani avviati al lavoro nell’ultimo anno solo il 9,8% è stato assunto con contratti di lavoro stabile (tempo indeterminato), viene da chiedersi perché tutta questa enfasi sull’art. 18: nella realtà è stato già superato.
La polemica in corso ha una valenza prevalentemente simbolica da ambo le parti. Si vuole procedere alla flessibilizzazione completa (leggi precarizzazione) del mercato del lavoro, per puntare ad un nuovo livello di concertazione sindacale. Con l’avvento del governo Monti è diventato manifesto come il potere finanziario sia in grado di condizionare direttamente e non più indirettamente le nomine politiche e, di conseguenza, come le scelte di politica del lavoro e di welfare siano a tale potere del tutto subordinate. Non è un caso che interventi sulla struttura del mercato del lavoro, all’indomani dell’accordo sindacale del 28 giugno, si sono già verificati dalla finanziaria di agosto con l’approvazione dell’art. 8 (che consente delle deroghe all’applicazione dell’art. 18 per i contratti aziendali di II livello) e che a partire da gennaio 2012 la riforma del mercato del lavoro targata Fornero-Ichino diventerà l’asse portante delle tanto agognate quanto illusorie politiche di crescita. Al riguardo, proprio in questi giorni è ritornata in auge la vecchia proposta, per i nuovi assunti, di un “contratto unico di lavoro a tempo indeterminato” contro la precarietà in cambio della liberalizzazione totale dei licenziamenti individuali e di un sussidio di disoccupazione. L’obiettivo che tramite la delega politica e sindacale si vuole perseguire è l’introduzione di una politica di flexsecurity, ancora nella tradizionale e mistificante logica dei due tempi. Prima si garantisce la totale precarizzazione del posto di lavoro, poi si propongono sussidi di disoccupazione (massimo 3 anni) con riduzione graduale del reddito erogato (Ichino propone una quota del 90% per il primo anno, poi una riduzione all’80% per il secondo e al 70% per il terzo, poi basta), ma generalizzati.
Si tratta di un’estensione dell’attuale sistema degli ammortizzatori sociali, che non elimina i fattori distorsivi e iniqui esistenti dal momento che la generalizzazione prevista vale solo per alcuni contratti di lavoro (non quelli dei precari). Inoltre, fattore di non poco conto, il “contratto unico” verrebbe assicurato dopo un congruo periodo di “prova”(si parla da 6 fino a 18 mesi), durante il quale il lavoratore è in balia dell’impresa, soprattutto se si considera che, grazie al Collegato Lavoro, l’abuso dei contratti precari non potrà più essere impugnato! Tutto ciò si basa sulla convinzione che in Italia esista una segmentazione del mercato del lavoro tra garantiti e non. Niente di più falso, come la vicenda Fiat (ma l’elenco è lungo) dimostra. La precarietà, oggi, in quanto esistenziale, generalizzata e strutturale, non è condizione che può essere riformata e quindi mediata: può essere solo superata. E per raggiungere tale obiettivo è necessario che invece di flexsecurity si parli di secur-flexibility.
Prima garanzia di reddito incondizionato e accesso libero e gratuito ai beni e servizi comuni materiali e immateriali (welfare del comune) poi, sulla base dei nuovi rapporti di forza che ne derivano, si può discutere delle condizioni di lavoro. Solo dopo che i precari si sono liberati dal vincolo del bisogno e della sopravvivenza, si può affrontare, senza ricatti e subalternità, il tema della riorganizzazione del lavoro e della produzione. Chiediamo l’inversione della politica dei due tempi. Altrimenti, non si fa altro che dare a tutti ciò che già oggi avviene nel mondo delle cooperative, dove il contratto di lavoro a tempo indeterminato è formalmente applicato in modo generalizzato, ma dove il grado di precarietà e subalternità è, guarda caso, il più elevato.