Privi di una base autonoma e di una forte giustificazione storica, risultato in buona parte della proiezione di potenza militare e politica della Russia staliniana verso Ovest, imitatori pedissequi ed obbligati, sotto pena di intervento militare come a Praga nel 1968, del modello sovietico, i regimi del socialismo reale dell’Europa orientale non erano certo destinati a un brillante avvenire.
Di questo la migliore sinistra italiana fu sempre ben consapevole. Ricordo negli anni Ottanta l’intervento di una delegata del movimento di dissenso cecoslovacco Charta 77, di cui era esponente Václav Havel, ad un congresso nazionale di Democrazia Proletaria, piccola ma significativa formazione politica di cui all’epoca facevo parte, e la sua commozione di fronte all’entusiastica accoglienza da parte della platea.
Due furono le figure emblematiche della “rivoluzione di velluto” che spazzò via tali regimi in Cecoslovacchia: Alexander Dubcek e Václav Havel. Sicuramente più importante politicamente il primo che fu segretario del partito comunista e in tale veste propugnò la famosa Primavera, interessante esperimento democratico soffocato dalle divisioni blindate dell’Armata Rossa. Meno politica, ma anch’essa fortemente popolare, la figura del drammaturgo Havel, le cui successive scelte di forte subordinazione alla Nato ed accettazione abbastanza incondizionata dei modelli di sviluppo neoliberisti suscitano parecchie perplessità, specie oggi che la crisi infuria in tutta l’Europa e in particolare in quella orientale, ridotta per certi aspetti a colonia del potere finanziario. E dove si colgono, specie in Ungheria, ma non solo, preoccupanti accenni di fascismo, sia militante che istituzionale.
Di taluni limiti del sistema cosiddetto democratico era consapevole peraltro lo stesso Havel, il quale in un documento del 2004 (ripubblicato da La Repubblica di lunedì 19 dicembre) denunciava il degrado in atto, scrivendo che «le corporation globali, i cartelli dei mezzi d’informazione, i potenti apparati burocratici stanno trasformando i partiti politici in organizzazioni il cui compito principale non è più il servizio pubblico, bensì la protezione di determinate clientele e interessi particolari». E ancora, sulla globalizzazione: «La fine del mondo bipolare rappresentò la grande occasione di rendere più umano l’ordine internazionale. Invece, abbiamo assistito a un processo di globalizzazione economica che è andato sfuggendo al controllo politico e che, in quanto tale, sta provocando scompigli economici e devastazione ecologica in molte aree del pianeta».
Di qui l’esigenza di centri alternativi di pensiero e di azione civile e la sottolineatura della dimensione morale della politica. Discorsi di grande attualità in un momento di grave crisi dei partiti tradizionali che richiede l’invenzione di nuove forme di partecipazione democratica e azione politica. Come pure è importante il richiamo al ruolo dell’Europa, in un momento nel quale essa rischia l’implosione per effetto delle politiche neoliberiste.
Certo, l’analisi di Havel è parziale e incompleta, come pure lascia perplessi il fatto che ascrivesse in modo abbastanza acritico alle “democrazie occidentali” i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà, che tali Stati calpestano ogni giorno nei loro rapporti con il resto del mondo e al loro stesso interno. Gli resta il grande merito di aver contribuito alla liquidazione di un regime certamente pessimo. Ma per evitare ai cechi, nel frattempo divisi dagli slovacchi, e a tutti gli altri popoli dell’Europa orientale, la penosa impressione di essere caduti dalla padella nella brace, occorre certo oggi un rilancio della mobilitazione democratica e unitaria su scala europea, per realizzare nei fatti e in modo effettivo quegli stessi principi contro la dittatura della finanza e le forze politiche che ne costituiscono i servi, sciocchi o complici.