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“Zingari, vucumprà, clandestini”. Così l’informazione ha “rovinato” gli immigrati

“Brutti, sporchi e cattivi. L'inganno mediatico sull'immigrazione” è il saggio di Giulio Di Luzio, che analizza i clichés narrativi attraverso i titoli dei quotidiani e i programmi del piccolo schermo. Emergono ritratti umani e cronache distanti anni luce dalla realtà. Perché in ballo ci sono consenso e direttive politiche

di Eleonora Bianchini
La copertina del libro

In Italia non sono migranti. In tv e sui giornali si chiamano “vucumprà”, “zingari” o “clandestini”. Stereotipi che formano l’immaginario collettivo e falsano l’informazione su chi arriva nel nostro paese in cerca di un futuro migliore. “Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione” (Ediesse) è il saggio di Giulio Di Luzio, giornalista e collaboratore del Corriere del Mezzogiorno di Bari, che analizza i relativi clichés narrativi attraverso i titoli dei quotidiani e i programmi del piccolo schermo. Emergono ritratti umani e cronache distanti anni luce dal risultato di una ricerca scientifica e accurata. Perché in ballo ci sono consenso e direttive politiche.

“Ho osservato un clima montante di disprezzo e intolleranza rispetto ai migranti”, spiega l’autore che ha integrato la sua analisi con un’intervista a Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite e un intervento di Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della Caritas Italiana. “Gran parte della stampa italiana, senza distinzione tra destra e sinistra, ha contribuito in modo significativo nella definizione del clima di sospetto e diffidenza. O addirittura di aperta xenofobia”. I casi sono numerosi: Di Luzio ricorda l’accanimento dei cronisti contro Patrick Lumumba, additato come colpevole dell’omicidio di Meredith Kercher. E ancora la caccia all’immigrato dopo la morte di Yara Gambirasio e il recente rogo del campo rom di Torino. Tutti esempi in cui l’immigrato innocente è stato il capro espiatorio.

“I media italiani dovrebbero farsi un esame di coscienza e la tv in particolare. – prosegue – Alimentano odio e cinismo senza preoccuparsi di entrare nelle comunità degli stranieri e consumare le suole, perché preferiscono limitarsi a trasmettere le notizie che arrivano dalle procure o dai politici”. Non c’è alcun interesse a trattare in modo serio e accorto il tema dell’immigrazione, spesso affrontato senza conoscenze adeguate. Vince la descrizione lugubre e minacciosa del migrante, la stessa applicata ai meridionali che nel dopoguerra si trasferivano dal Mezzogiorno al Nord Italia. “Il trattamento che veniva riservato ai nostri nonni oggi è stato trasferito su rumeni, marocchini e neri – osserva Di Luzio – C’è stata una cesura storica nei confronti del nostro passato, come se la memoria fosse stata cancellata. E anche la politica preferisce raccontare il fenomeno con la lente dell’emergenza, ignorando una cronaca più complessa e strutturata”.

Un canovaccio adottato anche a sinistra, che “per timore di ritorsioni sul piano del consenso elettorale, ha preferito rifugiarsi nelle politiche securitarie”. Eppure solo due generazioni fa i migranti calabresi e siciliani che arrivavano a Milano e Torino erano sbattuti in prima pagina con titoli infamanti. L’unica differenza è che oggi i bersagli non hanno il passaporto italiano. “I luoghi comuni si replicano su altri soggetti e in tv come sui giornali l’immigrato diventa semplicemente un extracomunitario. Senza identità”. Una massa indefinita e semplificata dai titoli che li riducono a “congolese” o “nigeriano”, che parlano di “sbarco di albanesi” e di “clandestini”. E sul piccolo schermo la mappa concettuale degli stereotipi diventa di default la verità, spesso pilotata dalla politica. “Nei rotocalchi pomeridiani in particolare – conclude l’autore – le formule retoriche sono strettamente interdipendenti da ordini di scuderia superiori. Parliamo di servizi che sono veri e propri spot ideologici venati di intolleranza”.

Una logica che abbassa anche la soglia di rispetto per i migranti. Fotografati mentre sono detenuti nei Cie, descritti negli articoli con tutte le generalità senza preoccuparsi delle gravi conseguenze personali “in patria” o presentati come vuole l’iconografia dell’approssimazione mentre lanciano pietre dai centri di detenzione. “Queste, del resto, sono le uniche chiavi di lettura del corpo degli estranei se si preferisce mantenere la distanza. Il risultato? Un racconto distorto che ignora l’oggetto di cui sta parlando”. La semplificazione che foraggia la macchina del consenso parlando dei “soliti immigrati” tradisce il dovere di informare i lettori. E di svolgere con responsabilità il lavoro di giornalista.

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