Alessandro Portelli, giornalista e narratore di memorie di lotta, è stato ospite della Fondazione Gramsci Emilia Romagna in occasione dell’uscita del suo ultimo volume: America profonda, due secoli raccontati da Harlan County (editore Donzelli). Portelli ha passato quarant’anni tra Italia e Kentucky per raccontare la lotta deiminatori dei monti Appalachi e delle loro donne contro le grandi industrie del carbone. Una battaglia per il diritto alla dignità umana, prima che lavorativa.
Sono scioperi che dal 1917, passando per gli anni Trenta del Novecento, attraversano il secolo diventando simbolo della storia degli Stati Uniti: “Harlan County è un’espressione estrema di cosa è possibile negli Stati Uniti d’America, ha una precisa specificità di violenza di classe. In Kentucky la storia che ti raccontano è l’intera storia degli Stati Uniti”. La repressione dalla polizia e dalle guardie private dei padroni delle miniere, l’eliminazione dei militanti sindacali, un’intera contea smembrata dagli scavi. E l’orgoglio di chi lavora, sotto il suolo della società.
Portatore di memoria per passione e per mestiere, l’autore romano ha narrato analogamente il dramma delle Fosse ardeatine e di Via Rasella, o la città di Terni e la vergogna della Thyssen Krupp, cucendo insieme voci, documenti e osservazione.
E gli operai di Harlen County, attraverso Portelli, parlano. “Avevo dodici anni e finita la scuola andai in miniera ad aiutare mio padre a caricare carbone”. Ascoltando le voci di chi “si consumano le rotule sulla pietra”, si percepisce un’America strozzata dai residui di uno schiavismo che ha cambiato obiettivo – non più i campi di cotone dei colonialisti, ma le miniere di carbone del capitalismo – conservandone la stessa ferocia: “Mi commuove ancora vedere queste immagini”, esordisce emozionato dopo la proiezione di alcune testimonianze tratte dal documentario di Barbara Kopple, Harlan County USA, sullo sciopero di Brookside (1973) che durò oltre un anno. “Sono persone che ho incontrato e conosciuto e che non ci sono più. Persone e voci che riempiono pagine di questo libro”. Nasi neri, mani deformi da vite passate sotto terra.
Professore di letteratura americana alla facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza, Portelli è uno dei fondatori dellastoria orale. Mite, dall’aspetto bonario e gli occhi accesi, porta con sé la forza delle persone che ha visto e ascoltato, e da cui ha imparato: “Fare storia orale è che tu puoi anche essere un professore e lui un analfabeta – racconta – però se tu gli stai facendo un’intervista, vuol dire che lui sa cose che tu non sai”. Il professore è entrato nelle case dei montanari appalachiani perché “non mi sono guardato attorno ‘alla ricerca di un posto pulito su cui poggiare il sedere’, mi dissero. Lì imparai che tu sei l’osservatore, ma sei anche l’osservato: è un lavoro a due. Infondo intervista vuol dire scambio di vista”. Racconta di un popolo umiliato ma non rassegnato, intossicato ma non annichilito.
L’endurance, come la definisce l’autore appoggiandosi a William Faulkner, è il filo conduttore che anima il racconto dei racconti: “la capacità di durare e non piegarsi nelle avversità. Endurance, lavoro, amore: erano questi gli ingredienti della sopravvivenza”, scrive. “È una delle parole chiave del libro. Perché a Bloody Harlan si muore in miniera, si muore per l’inquinamento, si muore di tumore e oggi anche di droga. E naturalmente chi muore? I poveri. L’idea che la lotta per la sopravvivenza è la forma che assume la lotta di classe è stato il tipo di formazione che ho avuto laggiù”. E aggiunge: “come diceva il mio maestro Gianni Bosio: per armare la classe della sua stessa forza, devi restituirgli la consapevolezza dell’importanza di quello che dicono”. “Poi mi fermo perché uno dei vizi che si imparano facendo storia orale è che inizi a parlare e non finisci più”. Ma per fortuna non si ferma e continua a raccontare, come un fiume in piena. Un affluente del Mississippi che arriva fino da noi portandoci l’America profonda e sconosciuta.
Ad Harlan, Portelli ci arriva negli anni ’60 attraverso il rock ’n’ roll: “Per molti di noi il rapporto con gli USA è passato attraverso la musica. Essendo io uno che di musica non capisce molto e dai pessimi gusti – ironizza – ascoltavo i lati B di Elvis, quelli country, di musica rurale. Folk revival anni 60, alla Tom Dooley (canzone popolare del North Carolina, ndr) per intenderci”. Non a caso, è a lui dobbiamo la pubblicazione dei primi dischi di Pete Seeger e Woody Guthrie, che furono proprio la porta d’ingresso a questo mondo: “Which Side Are You On?”. Scritta nel 1931 da Florence Reece, moglie e figlia di minatore, divenne l’inno della resistenza e della serrata attorno alla “union” (come veniva significativamente chiamato il sindacato dei minatori, lo United Mine Workers, ndr). Un sindacalismo che di base comunista aveva poco: “La lotta di classe è sicuramente non ideologica. Harlan ha votato contro Barack Obama. È un posto dove frequento persone che qui non frequenterei mai. Vado persino a messa, laggiù” scherza, poi spiega: “Sono repubblicani. Sono molto patriottici. In quell’America, la dimensione dell’umiliazione è talmente potente che la risposta è: siamo noi i veri americani. Se l’oppio dei popoli è la religione, in America è il patriottismo”. Eppure, prosegue: “oggi le aziende che non firmano il contratto aziendale fanno concorrenza a chi lo sottoscrive. Sono meno del 10% fra i minatori gli iscritti al sindacato. E questo non vuol dire che il resto pensa che starebbe meglio senza, ma che solo il 10 ha avuto possibilità di farlo. Se da comunista militante e non pentito volessi fare propaganda in Kentucky gli citerei l’articolo che dice che nel nostro paese il contratto nazionale ha valore di legge – o almeno così era fino a prima di Cristo (cioè Marchionne, intendo)”. Non si fa scappare l’attualità, l’acuto intellettuale e parla anche delle proteste di questi mesi: “Occupy Wall Street non ha nulla a che vedere co n questo tipo di proteste, ma una cosa è certa: l’America si sta molto “harlancountizzando”, perché il numero della gente che fatica a sopravvivere, cresce”.
Non rinuncia ad attualizzare, a rendere viva la memoria. Sindacati e partiti si sono allontanati dal popolo: “In Italia è un processo che si è messo in moto dalla metà degli anni ‘70, con la chiusura delle sezioni e la scelta della televisioni come luogo dove far politica anziché le strade. Con il modello dei partiti ad personam che purtroppo anche la sinistra sta adottando: prevale la delega al leader e non più di spazio sociale alternativo”. Quali diritti stiamo perdendo nelle ultime legislature e con Monti? “Monti speriamo se non altro che non ci mandi alla rovina. Il diritto che abbiamo perso è quello di eleggere i nostri rappresentanti, quindi per forza i nostri rappresentanti non si sentono in alcun modo legati a noi. E poi stiamo perdendo i contratti nazionali. Questa io penso che sia una catastrofe assoluta”.
Se dovesse partire oggi, quale sarebbe la meta, la nuova Harlen County? “Probabilmente la Palestina. Forse si conosce di più rispetto al dramma dei minatori, che continua anche oggi. Ma il paradosso è questo: che non se ne parla perché è lì, nel cuore dell’America”.