Le vicende recenti mi inducono a pensare che forse qualche coscienza si è assopita, forse qualche altra è intorpidita dall’abuso di sostanze stupefacenti mediatiche e forse qualche altra non si è proprio mai sviluppata, lasciando individui apparentemente umani ma in realtà un po alieni o, per dirla meglio con Dante: “sappi che tosto che l’anima trade, come fec’io, il corpo suo l’è tolto da un demonio che poscia ‘l governa infin che ‘l tempo suo tutto sia vòlto“.
Ciò che mi induce a questi pensieri è il constatare che nel dibattito pubblico si sta già pensando ad altro e discutendo d’altro mentre permane la drammatica spada di Damocle sospesa sulla testa di coloro che sono stati trovati in stato di debolezza dalla simpatica trovata, senza precedenti in alcuna società civile dei tempi moderni, di allungare di colpo l’età di pensionamento di 4-6 anni.
Mi riferisco a quei disoccupati tra i 58 e i 60 anni di età che, con un eccesso di fiducia, avevano pensato di vivere in un paese dominato dal rispetto delle regole e pertanto avevano volenti, ma molto più spesso nolenti, accettato l’estromissione dal mercato del lavoro come un male curabile con un periodo più o meno lungo di instabilità, cioè i disoccupati colti in tale stato dalla mai sufficientemente definita irriflessiva riforma delle pensioni.
A questi è stata ventilata una via d’uscita (l’esenzione dalla riforma nei limiti di spesa concessi all’Inps) che, per come prospettata, costringe come minimo a un lungo periodo di stress coronarico nell’attesa di sapere se sarà effettiva e nel peggiore dei casi allo stesso stress con la ciliegina finale della non esenzione, che sarebbe molto poco ingeribile, anzi un boccone avvelenato con esito mortale.
Ricevo tutti i giorni sollecitazioni a perorare la causa di queste persone (perché è di persone che si tratta, non di cifre a bilancio) e ciò che leggo o sento non sono lamentele per disagi indesiderati, ma appelli accorati a considerare che per moltissimi non c’è verso che possano rimanere senza reddito per qualche anno.
Ma, domando: che razza di paese è il nostro nel quale si discute di quante di queste persone si possano salvaguardare o di come estendere un emendamento che ampli il numero degli esentati senza comprendere che la quantità non può che essere: “tutti”? A quale punto di cinismo si è arrivati nel non vedere che anche soltanto un non esentato posto nella disperazione dovrebbe essere motivo di ripensamento immediato sul come si sia legiferato? Che cosa occorre in termini di evidenze traumatiche perché si capisca che la quota di esenzione di 50.000 era un numero insufficiente se il necessario fosse stato 50.001 e che 1 miliardo di euro all’anno è una cifra insufficiente se il necessario fosse 1 miliardo e un euro? E cosa si deve fare per evitare che il dibattito pubblico si dimentichi subito del problema e passi ad altro?
E chiedo ai ministri e parlamentari, che hanno in questo caso quasi potere di vita o di morte e che, purtroppo, sono stati chiamati a decisioni su cose che mai dovranno sperimentare sulla loro pelle: ci voleva proprio tanto a scrivere che “tutti coloro che si trovano in stato di disoccupazione e che avrebbero maturato i requisiti da quello stato, secondo le regole vigenti prima della riforma, ne saranno esentati? O ci vuole proprio tanto a scriverlo in un disegno di legge da approvare in gennaio? E che termometro del disagio vi occorre per capire che dare questa garanzia non è solo doveroso, ma urgentissimo, perché ogni minuto in più trascorso nell’incertezza è una tortura inferta a famiglie intere?
O dobbiamo concludere che il destino della nazione, la sua salvezza dall’incubo dello spread, dipende dal sacrificio di quei disoccupati che sarebbero lasciati in mezzo a una strada? E, in questo caso, il fine giustificherebbe il mezzo?
Forse serve un esame di coscienza collettivo che ci aiuti a prendere, modificare, discutere e accettare le decisioni appunto secondo coscienza, dimostrando così di averla e ben sveglia; senza se e senza ma, senza titubanze né rinvii, senza quote né previsioni di bilancio, senza dimenticarsi nessuno per strada, senza girare lo sguardo.
Non è mai troppo tardi.