Oggi Pasquale Pirolo, nato nel 1949 a Curti (provincia di Caserta), è ritenuto uno dei luogotenenti di Michele Zagaria tanto che si sospetta che del boss dei casalesi siano in realtà i beni sequestrati a lui e ad altri presunti complici (beni per un valore di 50 milioni di euro distribuiti tra la provincia di Verona e quella di Foggia con uno zoccolo duro dalle parti di Reggio Emilia). Ma il vissuto di Pirolo racconta molto altro, secondo le carte della Dda di Napoli. Racconta di guerre tra clan della camorra per togliere di mezzo Raffaele Cutolo e per far fruttare i soldi dei clan vincenti. E racconta anche di sodalizi affaristici con personaggi che vengono dal mondo della P2, a iniziare dal suo capo, Licio Gelli.
In passato è stato infatti considerato l’alter ego “nel settore del reimpiego dei capitali illeciti” di Antonio Bardellino, con cui è stato tratto in arresto il 2 novembre 1983. Entrambi vengono individuati a Barcellona, proprio dove Pirolo ancora oggi risiede, e con lui è stato condannato il 29 aprile 1986 dal tribunale di Napoli con sentenza divenuta definitiva. E ancora a Bardellino, dopo questo primo “inciampo”, resterà legato fino al maggio 1988, anno in cui quest’ultimo muore durante la latitanza in Brasile. E’ il momento in cui nasce il clan dei casalesi.
Da Cutolo alla Nuova Famiglia: gli anni in cui si deve decidere con chi schierarsi. I magistrati della Dda partenopea definiscono oggi “davvero singolare” la storia di Pasquale Pirolo. Il quale, finito nelle carte di numerose indagini, come la Spartacus 1, inizia la sua carriera in piena guerra di camorra tra la Nco di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia (o Nuova Fratellanza), di cui Bardellino faceva parte integrante. L’ambiente in cui a fine anni Settanta Pirolo avvia le sue attività è quella dei Nuvoletta e degli Zaza, considerati la “costola campana” della siciliana Cosa Nostra, come ricostruirà a partire dall’estate 1984 dal giudice Giovanni Falcone.
Piroli assiste al tramonto del professore Cutolo e all’affermazione dei “clan rivali” non avendo esitazioni sulla scelta del fronte con cui schierarsi. Del resto, in questi anni, si parlava di “trucidare le vili cotolette” cutoliane, come si leggerà in un carteggio tra boss che pianificano la fine della Nco. E Bardellino, insieme agli altri capi dell’ala vincente della camorra – diranno le carte dei magistrati – fanno girare sempre più soldi da usare per vari scopi. Si va dai “vaglia assistenziali” per i detenuti alla creazione di imperi finanziari che consentano di ripulire il denaro sporco e far fruttare quello pulito.
Quello che oggi viene ritenuto la mente della rete dei prestanome del boss casalese Michele Zagaria deve vedere qui il suo futuro e questa prima parte della sua storia la si può ricostruire a partire dal 20 novembre 1984, quando il campano viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la procura di Santa Maria Capua a Vetere. Ma come 11 anni più tardi, quella collaborazione viene ritenuta “parziale e interessata” per arrivare nel giro di breve a ottenere la scarcerazione e la restituzione dei beni che già negli anni Ottanta gli sono stati sequestrati. Così accadrà in tempi rapidissimi, già alla fine del dicembre 1984.
L’anno successivo, Pirolo ricomincia a collaborare con i clan della camorra tanto che inizia di nuovo l’attività della General Beton, società che aveva fondato per conto di Bardellino (che ci mette i soldi) per entrare nel giro del calcestruzzo per il post-terremoto del 1980. In quest’azienda c’è anche Vincenzo Zagaria come socio e la società era entrata nel Cedic, un consorzio che riuniva una serie di aziende casertane.
Con il ritorno in affari di Pirolo, dopo l’arresto, inizia lo svuotamento della General Beton per frodare i creditori. Intanto crea un’altra società, la Icm, che rileva impianti e mezzi dell’azienda esistente e si lancia in nuove opere pubbliche, come la sistemazione dei Regi Lagni, vicenda finita con un disastro ambientale che ha portato ancora nel 2009 la Regione Campania a stanziare 50 milioni di euro per bonificare quella che viene considerata una fogna a cielo aperto collegata ai pozzi di irrigazione. Tornando però indietro, nel 1989 la Icm e i suoi beni strumentali finiscono a un altro boss dei casalesi, Carmine Schiavone. Il quale, da quel momento, dimostrerà tuttavia di non apprezzare la gestione Pirolo a causa di una serie di crediti che la società non riesce a incassare.
Gli anni Novanta: il narcotraffico tra Venezuela e Bulgaria. Ritenuto coinvolto tra il 1997 e il 1998 nell’importazione soprattutto dal Venezuela di cocaina nascosta in scarpe e computer portatili, Pirolo viene indagato dalla procura di Milano per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Assolto dalle accuse più gravi (saranno i suoi complici a essere descritti come i vertici della rete di trafficanti), questa vicenda giudiziaria lo porta però a essere individuato come uno dei terminali verso la Bulgaria e come il fondatore della Hercu Italia, consorella da questa parte dell’oceano dell’omologa venezuelana coinvolta nel traffico intercontinentale.
Per il fisco, Pasquale Pirolo è uno spiantato. Dal 1986 al 2000 dichiara non più di 4 mila euro di reddito, ed è proprio all’inizio del nuovo millennio che partirebbe con la tessitura della “catena di occultamento” a favore degli Zagaria. Catena che porterà in tutta Italia (dalla provincia di Verona a quella di Foggia con una consistente presenza in Emilia Romagna) ai sequestri di beni per 50 milioni di euro dei giorni scorsi su disposizione della Dda di Napoli.
Gli anni Duemila: gli affari nel mattone con vecchi interlocutori della P2. È il periodo in cui il narcotraffico subisce una battuta d’arresto e allora ecco la riconversione verso il mattone. È a questo punto che emergono i nuovi soci, quelli che “si prestano a operazioni di intestazione fittizia dei beni”. Tra loro compare l’immobiliarista Alvaro Giardili, un pregiudicato che fin dal 1983 viene indicato come personaggio ad “alta pericolosità” dall’Alto commissariato antimafia. Inoltre, stabilirà la Corte d’Assise di Roma, “aveva la disponibilità dell’autovettura blindata di Francesco Pazienza, che era in contatto con vari esponenti della camorra”. Sul cadavere “del camorrista Vincenzo Casillo venne rinvenuto un suo biglietto da visita”.
I nomi citati dalla sentenza romana non sono da poco. Pazienza è stato consulente del Sismi ai tempi della direzione del piduista Giuseppe Santovito ed è stato condannato per i depistaggi alle indagini per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Vincenzo Casillo, detto ‘O Nirone, invece, venne ucciso a Roma il 29 gennaio 1983 dall’esplosione della sua auto, nella guerra tra cutoliani e Nuova Famiglia. Considerato un affiliato “anomalo” alla Nco del Professore, ebbe un ruolo nella liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania sequestrato il 24 aprile 1981. La stessa liberazione che vide l’intervento anche di Pazienza.
Inoltre Giardili, uno degli uomini di Pirolo negli affari immobiliari, “era stato sottoposto a indagini nell’ambito dell’inchiesta relativa all’evasione di Licio Gelli, avvenuta dal carcere svizzero” di Champ Dollon, dove il capo della loggia P2 fu rinchiuso fino alla notte tra il 9 e il 19 agosto 1983. E come se non bastasse, scrivono ancora i magistrati, “aveva avuto contatti con il noto ‘faccendiere’ Roberto Calvi, sul cui cadavere, all’atto del rinvenimento a Londra, venne trovato un biglietto da visita del Giardili”. Era il 18 giugno 1982.
Questa sono alcune delle vicende che, direttamente o per interposti soci, incrocia nella sua carriera Pasquale Pirolo. Che quando inizia a far girare il meccanismo della rete di prestanome per cui oggi è sotto indagine, si serve anche della seconda moglie, la spagnola Carolina Josefina Trovar Yanez, pure lei destinataria del decreto di sequestro dei giorni scorsi. Nel caso dei prestanome, dagli accertamenti degli inquirenti emerge che gli investimenti sono ogni volta di centinaia di migliaia di euro. Ma, come accaduto per Pirolo nel decennio precedente, sempre secondo documenti della Dia e dell’Agenzia delle Entrate, si crea una “evidente sproporzione” tra redditi e valore degli acquisti per i vari personaggi coinvolti nel giro d’affari. Ora si deve accertare se in effetti quegli acquisti non sono di proprietà degli intestatari, ma dal capo dei casalesi Michele Zagaria.