Il nuovo governo ha il merito – mai abbastanza apprezzato – di essere vero, normale e competente, e di essere subentrato da un giorno all’altro, a un governo incompetente, pericoloso e ridicolo. La lista delle cose da fare per salvare il Paese (una piccola parte per ora è entrata in una legge che, infatti, si chiama “salva Italia”) era enorme, perché niente, a parte i danni e le violazioni alla Costituzione, era stato fatto, in 17 anni di dominio mediatico berlusconiano, in tre governi, in dieci anni di effettivo e totale potere, da Porta a Porta alla Guardia di Finanza. Da questo vasto paniere il nuovo governo ha scelto, in modo realistico, ma molto pesante per tutti gli onesti, tasse, prelievi e tagli di quasi ogni attività che possa essere raggiunta dalla mano di un governo. Vuol dire tassare o tagliare tutto ciò che è alla luce del sole, tutta la parte emersa dell’economia (strana distinzione, ma necessaria, in un Paese malato in cui la metà dell’attività, e dunque del prodotto economico, è sommerso).
Dunque tutta la vita di lavoro di coloro che, dal portiere al manager, sono tassati alla fonte, tutto l’assetto delle pensioni (che pure non erano in pericolo né sull’orlo di alcun crollo, ma facevano cassa) cambiando in corsa molte regole, senza far caso alla sconnessione tra la vita grama dei conti pubblici, la vita grama delle persone e la vita grama delle imprese. Cosicché d’ora in poi ci sono persone che devono andare in pensione più tardi per migliorare i conti pubblici, ma vengono messi fuori dal lavoro più presto per migliorare i conti privati e, per salvare l’Italia, restano senza lavoro, senza pensione e dunque fuori da qualunque crescita o ripresa dell’economia, un peso morto per la recessione che, ci dicono, sta venendo.
Avrete notato che ho detto, dell’insieme delle mosse del governo, che “sono realistiche”. Intendevo dire che Monti e i suoi ministri hanno fatto ciò che si fa in tutte le democrazie, e che non è il colmo della giustizia, ma è il meglio del risultato: tassare i tassabili. Negli Stati Uniti di George W. Bush, la tassazione era stata esplicitamente accollata tutta e solo al lavoro dipendente, vantando pubblicamente il merito di avere esonerato i ricchi. In quello stesso Paese un presidente di cultura e moralità opposta, Barack Obama, non è ancora riuscito a spostare il peso delle tasse da chi vive di lavoro a chi vive di ricchezza, e c’è il rischio che esca di scena prima di esserci riuscito e con il rimpianto di non aver potuto restituire ai poveri le cure mediche garantite, cancellate da Ronald Reagan, per donare il “tesoretto della salute” all’immenso potere delle compagnie di assicurazione. Poteva essere più facile la vita di un governo tecnico italiano che i partiti, più che sostenere, contengono, fermandolo un po’ qua e un po’ là? Comunque questo governo ci ha promesso un secondo tempo che potrebbe portare, almeno in parte, ciò che non è ancora accaduto: un piano, finalmente vero (quelli di Berlusconi erano come la lotta alla mafia di Maroni, che – mentre lui dava la caccia agli zingari – gli si è insediata al Nord) di lotta all’evasione fiscale, che vuol dire anche un grandioso censimento di capitali vaganti e mancanti all’appello dell’emergenza.
Restano due questioni tentate e incompiute. Sono le liberalizzazioni e la cosiddetta riforma del lavoro. Alle liberalizzazioni (delle professioni, delle vendite, degli orari, delle attività produttive) si sono opposti con furore rapido ed efficace (e molta complicità nel sottofondo del Parlamento) gli interessati più tutti coloro che si definiscono “liberali” in Italia, e non se ne parla più. Se farmacisti ed esclusivisti di questo e di quello non vogliono liberalizzare, ci sarà una ragione. Siamo una democrazia. Rispettiamola.
Difendere il lavoro invece è sovietico, eversivo, e potrebbe portare anche a brutti eventi, tipo il terrorismo. Si fa così: si prendono i lavoratori che sono ancora protetti dalla legge detta “Statuto dei lavoratori” e li si dichiara “superprotetti”. Tutti gli altri, che attraverso una serie di trovate e marchingegni, sono stati lasciati fuori, vengono definiti (dopo avere creato la situazione in cui si trovano) ingiustamente esclusi. La terza mossa è dichiarare “privilegiato” chi gode ancora del beneficio della legge (che non ha un costo e non pesa su nessuno) e sfidarlo a rinunciare a quel “privilegio” (in gergo, l’art. 18 dello Statuto appena citato) cosicché i lavoratori siano tutti uguali, tutti senza garanzie. Si chiama “flex security” e vuol dire libertà di licenziamento, che, a quanto pare, il mondo ci chiede per essere rispettabili.
Non risulta che sia vero né che ci siano capitali fermi alle frontiere in attesa della liberazione dei lavoratori italiani dall’art. 18. Però di una cosa dobbiamo alla fine renderci conto. Qui è come discutere con Ratzinger della procreazione assistita o del testamento biologico. Non si può, non si deve e basta. Al momento neppure questo buon governo fondato sulla tecnica e non sulla fede sembra disposto ad accantonare la teologia del lavoro libero e vagante, come valore per misurare un Paese. Forse nel terzo tempo ne riparleremo senza insultare e denunciare Cgil, Fiom e Camusso come pericolosi avversari della pace di Marchionne?
Il Fatto Quotidiano, 24 Dicembre 2011