Una cartella esattoriale da oltre 85 mila euro, da pagare entro 30 giorni, pena l’iscrizione d’ipoteca sui beni immobili. Soldi richiesti da Inps, Inail e Agenzie dell’Entrate che dovevano essere bloccati per legge dalla prefettura, visto che il debitore è un testimone di giustizia, preso di mira dalle cosche mafiose. A causa di una spirale di ritardi burocratici, però, quelle cartelle non sono state bloccate. E adesso il testimone di giustizia Ignazio Cutrò, che da anni denuncia il racket delle estorsioni, si ritrova con l’acqua alla gola.
“Quella cartella esattoriale – spiega – doveva essere bloccata dalla sospensione prefettizia, ma per una serie di errori, ritardi e incomprensioni tra i vari Enti statali, è arrivata fino alla notifica. Non sto chiedendo sconti ma quello che mi spetta di diritto. Lo Stato deve fare il proprio dovere: deve dirmi cosa devo fare per salvare la mia azienda dopo essermi ribellato al pizzo”.
Cutrò, 43 anni e due figli, è un imprenditore edile di Bivona, piccolissimo centro montanaro della provincia di Agrigento. Dal 1999 è stato preso di mira dalla locale famiglia mafiosa dei Panepinto. Incendi, danneggiamenti, minacce di morte: tutto pur di costringerlo a pagare la cosiddetta “messa a posto” a Cosa Nostra. Lui però non si è mai piegato ed ha denunciato alla giustizia i suoi aguzzini, dando il via all’operazione antimafia Face off che portò alla sbarra i capi clan della bassa Quisquina.
Un processo e ben 76 anni di carcere in totale per gli esponenti della cosca dei Panepinto non fermarono le ritorsioni, divenute anzi sempre più serie e frequenti, e dal 2006 l’imprenditore agrigentino è costretto a vivere sotto protezione notte e giorno insieme alla sua famiglia.
“Ho sempre creduto nello Stato e mi sono sempre opposto alla violenza mafiosa – racconta Cutrò – credevo che si potesse sopravvivere facendo il proprio mestiere anche se ti opponevi a Cosa Nostra. Lo credo ancora e sono disposto a non avere una vita normale, a essere scortato notte e giorno purché cambi qualcosa nel sistema. Ma che segnale dà lo Stato lasciandomi in balia di debiti che dovevano essere sospesi per 300 giorni?”
Al momento dalla Prefettura di Agrigento, l’ufficio che doveva emanare in tempo la sospensiva delle cartelle esattoriali, nessuno ha voluto commentare la difficile situazione. E neanche allo stesso Cutrò hanno dato spiegazioni. “Semplicemente non rispondono – dice l’imprenditore – E’ una situazione simile a qualche tempo fa, quando volevano che abbandonassi la mia città, che scappassi per proteggermi meglio e ricominciare una vita. Ma che senso ha scappare dopo aver denunciato? E come dargliela vinta ai mafiosi.”
Cutrò infatti è il primo testimone di giustizia sotto protezione che ha ottenuto di non abbandonare il luogo d’origine. “Volevo fare capire agli altri imprenditori – racconta – che si può sopravvivere anche denunciando il pizzo. Che testimoniando si può continuare a lavorare senza fallire. In questo modo invece, negandomi ciò che è mio diritto, si dà il messaggio completamente contrario. Io 85 mila euro da dare alle Serit Sicilia (l’agenzia esattoriale) non li ho. E non posso avere la certificazione Durc per poter riprendere a lavorare e pagare i debiti. Un circolo vizioso in cui non mi stanno lasciando via d’uscita”. A causa del mancato blocco delle cartelle esattoriali, infatti, all’imprenditore non sono ancora stati rilasciati i documenti necessari per riavviare l’azienda.
Sulla vicenda il presidente di Confartigianato Sicilia, Filippo Ribisi ha espresso un commento amaro: “E’ ingiusto che lo Stato italiano chieda agli imprenditori di mettersi in prima linea denunciando il pizzo imposto dai mafiosi, e poi li costringa a confrontarsi con meccanismi burocratici lunghi e farraginosi che finiscono per boicottarli, prestando il fianco alla criminalità che punta anche su questo per scoraggiare le imprese a denunciare”