Come mentori che si affollino intorno ad un sovrano minorenne, molti consiglieri cercano in queste settimane di trarre profitto dalla conclamata incompetenza ‘tecnica’ del neoministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi. Ed è assai significativo che il più vistoso suggerimento fin qui formulato sia di marca ultra-liberista, e miri ad uno smantellamento radicale del sistema della tutela del patrimonio storico e artistico della nazione.
Il messaggio è arrivato attraverso un editoriale dell’architetto Marco Romano (Corriere della sera, 19 novembre). Egli vorrebbe, sostanzialmente, chiudere le soprintendenze (manifestazioni di «uno Stato nemico dei cittadini», in mano ad un personale «non particolarmente qualificato»), proponendo che i monumenti “più significativi” vengano “adottati” da “istituzioni, fondazioni, gruppi di cittadini”, col supporto tecnico delle facoltà di Architettura. Per sostenere tale posizione, Romano fa leva su una nota (quanto sbagliata) esegesi del dettato dell’articolo 9 della Costituzione: poiché è “la Repubblica”, e non lo Stato, a tutelare il “patrimonio storico e artistico della nazione”, ciò significherebbe che il monopolio del Ministero dei Beni culturali sarebbe abusivo, e andrebbe sostituito “dalle Regioni, dai Comuni e dagli stessi cittadini che desiderino farsene carico”, in una fantasiosa tutela-bricolage.
Ebbene, conviene partire da quest’ultimo argomento. Il fatto che la Costituzione dica esplicitamente che il patrimonio storico-artistico appartiene alla “nazione” sgombera il campo dai possibili equivoci regionalistici. È una delle pochissime volte che i costituenti usano la parola “nazione”: cosa che fanno, per esempio, nell’articolo 67, per chiarire che ogni parlamentare rappresenta l’intera nazione a prescindere dal collegio in cui sia eletto. E Concetto Marchesi volle fortemente l’articolo 9 proprio per impedire una prevedibile “raffica regionalistica” che avrebbe in poco tempo parcellizzato e quindi consumato il patrimonio. E non a caso l’articolo 9 si trova tra i principi fondamentali: nella parte, cioè, che disegna i connotati della Repubblica, sovraordinandoli ad ogni definizione delle regioni e degli enti locali.
D’altra parte, il patrimonio artistico ci ha reso nazione (al pari della lingua) ben prima dell’esistenza dello Stato unitario: ed è proprio per questo che è vitale che la sua tutela sia nazionale, e non locale.
Ma quali sono i veri obiettivi della proposta di Romano (e non solo sua: per esempio, Dario Nardella, il vicesindaco di Matteo Renzi a Firenze, prospetta da tempo misure analoghe)? Essi appaiono chiarissimi: affidare i monumenti “più significativi” (presumibilmente assai pochi, e sradicati dal tessuto storico artistico continuo che è l’Italia) ad una vaghissima adozione volontaristica dal basso, e poter sottoporre tutto il resto ad una sfrenata ‘valorizzazione’ (leggi: monetizzazione), fatta di alienazioni, trasformazioni edilizie irreversibili, inesorabile messa a reddito.
La biografia stessa di Marco Romano incoraggia questa lettura: nel 1981 egli teorizzava che «la trasformazione di Venezia in una disneyland potrebbe segnare il passaggio a un modo di vivere più creativo, più allegro, più festoso»; più recentemente, è stato uno dei garanti chiamati dalla Moratti a garantire la realizzazione del parcheggio sotto la piazza milanese di Sant’Ambrogio (uno dei peggiori scempi in atto).
Nessuno nega che le soprintendenze italiane siano piene di difetti, ma se vogliamo fare l’interesse del Paese bisogna farle funzionare, non toglierle di mezzo.