La prima battuta di Mario Monti nella conferenza di fine anno arriva dopo un solo minuto, quando dietro la scrivania austera di marmi opachi e noce scura, Enzo Iacopino, presidente dell’ordine dei giornalisti, gli regala un tesserino onorario amaranto. Lui sorride: “Per me è una promozione avendo scritto tre o quattro articoli su qualche giornale, anni fa, avevo quello da pubblicista…”. Poi però non si ferma più, molto più simile al suo imitatore Maurizio Crozza che a Carlo Azeglio Ciampi: “Parlerò dello spread, forse avrete già sentito questo termine”. Oppure: “Conosco anche io un minimo di economia”. O anche: “Ottimo interrogativo. Mi ponga la stessa domanda alla fine del prossimo anno”. O addirittura, quando gli chiedono se sia vero il vertice del tunnel: “Anche questo quesito, rivela quanto sono profonde le vostre domande”. Ci sono i ministri in prima fila, c’è Piero Giarda appoggiato a una parete, applausi a scena aperta. È nata una stella.
Non ci sarebbe nulla di male, se oltre all’ironia e a una generosa dote di autostima che lo colloca al centro della storia contemporanea (“Se crolla l’Italia crolla l’economia del mondo”), Monti non avesse brillantemente e sistematicamente eluso quasi tutti i 24 quesiti che gli sono stati posti. Ha dato spettacolo: ma se fosse stato l’esame di un suo studente, forse non avrebbe raggiunto la sufficienza. Persino sulla spread, malgrado un momento-cult in cui siamo passati prodigiosamente dalle lavagne magiche di Berlusconi a casa Vespa, alla liturgia dello spread, con tanto di diagramma in retro-proiezione ha evitato la domanda delle domande. Quale dovrebbe essere – gli chiedono – il livello giusto del differenziale tra titoli italiani e tedeschi? E lui: “Non c’è una risposta. L’economista dice che è il mercato a stabilire il prezzo giusto”. Però, mentre illustra il grafico, è davvero meraviglioso l’intrico teologico-economico che il premier sottointende (ma nemmeno troppo) fra la crisi dei nostri tassi di interesse e la cronaca politica recente: “La guglia massima è stata toccata un giorno che ricordo bene per la telefonata in cui il presidente Napolitano mi annunciava una nomina”. Il 9 novembre, la nomina era a senatore a vita.
Quella del presidente del Consiglio è una metamorfosi. Non la prima, certo, ma una delle più rapide e sorprendenti della storia politica italiana, e tutt’ora in corso. Come Romano Prodi, come Massimo D’Alema, come Fausto Bertinotti: la politica logora chi la fa (ma lo compiace assai). Il tecnico algido sta diventando un po’ piacione. Alla fine della conferenza stampa, che inizia alle 12.10 e finisce un’ora dopo il previsto, Monti di battute ne farà addirittura sedici: quelle di Silvio Berlusconi quasi sempre erano grossolane e facevano ridere solo lui (o Sandro Bondi). Quelle montiane sono molto argute, anche se spesso non si capiscono. Eppure, tornando a palazzo Chigi, dalla sala stampa della Galleria Alberto Sordi c’è stato un bagno di folla in cui il premier, applaudito e inseguito, si è spinto ben oltre le colonne d’Ercole della sua abituale glacialità professorale: è arrivato fino a baciare un bambino sorretto da una autentica mamma napoletana (non era una figurante). A una turista sudcoreana, che lo guardava stupita ha nientemeno sorriso: “Where are you from?”. Sublime.
Le battute, dunque. Anche cattivelle, a dire il vero: “Come sottolineano i colleghi economisti di cui non trovo il ritaglio stampa …”. Si tratta ovviamente di due professori che Monti conosce molto bene perché lo cannoneggiano dalle colonne del Corriere della Sera, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina (Tiè). Ma vuoi mettere la scenetta? Si vendica anche citando positivamente la risposta di Sergio Romano a un lettore (un professore, guarda caso, di Diritto tributario): “Il giornalista ambasciatore tanto nessuno capisce chi è…”. E poi gli anglicismi a pioggia, i dialoghi con il presidente (tedesco) della stampa parlamentare, trasformato in un cerimoniere ambasciatore. E anche le piccole deliziose gaffe, come quando confonde i diagrammi, o non trova gli appunti che il fido Paolo Peluffo – paonazzo e serafico – gli porge: “Ma dov’è quell’appunto della Fornero?”. Niente, non si trova: “Allora, presidente – dice chiedendo il soccorso di Iacopino – mi faccia un’altra domanda”.
Certo, il cambiamento c’è. Siamo passati dalla “Patonza che deve girare”, alle deliziose discettazione sul “midtermismo” (che noi italofoni potremmo tradurre “respiro corto”). Il vocabolario internazionale irrompe impetuoso come per voler riscrivere quello della stampa nazionale: “Good point!”, esclama a un giornalista del Wall Street Journal per dire che gradisce la (dura) domanda. Poi parla del credit crunch, ovviamente del “Long term”, del “trade off” e delle “best practice”, e addirittura del noto “Surfing degli italiani”. Il Cavaliere raccontava barzellette, lui si esercita nell’ironia – anzi, scusate – i bocconiani direbbero: nell’understatement. E quanta autocelebrazione c’è nel definirsi: “Sono stato considerato il più tedesco tra gli economisti italiani”. E subito dopo aggiungere – altra battuta! – “E non tutti quelli che usavano questa definizione la intendevano come un complimento”. Cita un editoriale del Washington Post sull’Italia (ma in realtà è su di lui). E uno sulla Süddeutsche Zeitung secondo cui è il “genero ideale”. Motivazione: “Perché parlo poco, vesto in modo serio e banale e non sono molto rumoroso”. Chissà che il vero momento verità, per capire l’enigma che passa per la testa di Monti sia quando gli scappa una parafrasi di Rino Formica: “Viviamo in un mondo di carne ossa e denaro, e non solo di principi”. Ce ne eravamo accorti, professore (battuta).
Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2011
(Foto Lapresse)