Nella febbrile caccia all’anniversario che si scatena ogni solstizio d’inverno, la vigilia del 2012 è dominata da un fantasma senza rivali. Non il Dickens di cui gli inglesi si apprestano a celebrare i due secoli dalla nascita. Non il cinquantenne Diabolik o l’ottantenne Topolino (versione italiana, 1932). E neppure le amanti dei due dittatori, Eva Braun e Claretta, che festeggerebbero il centesimo compleanno in febbraio, a pochi giorni di distanza una dall’altra. No, il centenario che più fa sudare i redattori delle pagine culturali è quello di Giulio Einaudi, icona intoccabile e santo patrono dell’editoria di sinistra, nato il 2 gennaio 1912 e morto nel ‘99. I giornali, come di consueto, hanno preso la rincorsa lunga, officiando una missa solemnis a reti unificate fin da metà novembre, in coincidenza con l’uscita in libreria de I verbali del mercoledì, le mitiche riunioni editoriali della casa dello Struzzo dal 1943 al ’52: una mappazza rilegata di seicento pagine (prezzo di copertina 40 euro) che qualche zelante einaudiano ha pensato perfino di consigliare come cadeau natalizio. E allora perché non gli atti della commissione antimafia? Almeno lì c’è una trama, sangue e bombe, e i personaggi non sono umbratili intellettuali che si scannano su Adorno e Braudel.
Ma se qualcuno si fosse perso le puntate precedenti, o non avesse guardato il calendario, la “Repubblica” ci rinfresca ora la memoria con un’intervista-fiume a Roberto Cerati, che di Giulio fu per mezzo secolo il più stretto collaboratore: un uomo timido, elegante come sua madre, sostiene Cerati.
Personalmente, nel mio piccolo, ho un ricordo diverso. Erano i primi anni Ottanta, lavoravo al “Sole 24 Ore”, il giornale della finanza che proprio allora, sotto la guida di Mario Deaglio e Gianni Locatelli, si stava aprendo alla cultura. La crisi dell’Einaudi era entrata nella fase culminante. Chiedo un’intervista al patron attraverso il suo ufficio stampa, Alberto Papuzzi, e dopo qualche insistenza mi viene concessa. La mattina del giorno convenuto salgo su un treno e mi presento puntuale in via Biancamano, a Torino. Mi viene incontro Papuzzi, pallido e imbarazzato. Al suo fianco Eileen Romano, figlia dell’ambasciatore e allora assistente di Einaudi. «Giulio non può riceverti», balbettano. «Come è possibile? Sono venuto apposta». «Mi dispiace, non può». «Insomma, non vuole». Giro sui tacchi e me ne torno, allibito e furente, a Milano.
Ecco chi era Giulio Einaudi: tutto, meno che un signore timido ed elegante. Non sarà stato il Fitzcarraldo del libro, come lo ha definito Gianarturo Ferrari, ma un despota capriccioso e all’occorrenza un po’ cafone, questo sì: uno capace di addentare la mano di chi voleva aiutarlo, di sbattere la porta in faccia all’inviato di un quotidiano che gli avrebbe dato accesso alla business community in un momento di gravissime difficoltà finanziarie. E poteva magari commuovere qualche banchiere, tirandolo fuori dal guano. Ancora adesso non riesco a spiegarmi le ragioni di quel gesto. Forse, semplicemente, non ero del giro, stavo fuori dal suo orizzonte ideologico, e non si fidava di me. Avrei potuto raccontare sul mio giornale il colossale pacco che mi aveva tirato. Non me la sentii. Lo faccio ora, a trent’anni di distanza, per onorare a mio modo i cent’anni del divo Giulio.
Da Saturno del 30 dicembre 2011