Ci sono passaggi politici che sembrano inesorabili. Quello della riforma del mercato del lavoro è uno di questi. Invocata da tutto il mondo, escluso il Papa per ora, meccanismi come l’articolo 18, gli ammortizzatori sociali, il contratto unico, le normali garanzie che sono state elaborate per il mondo del lavoro sembrano all’improvviso l’unico, o l’ultimo, ostacolo per risolvere la crisi. Come se riducendo le garanzie contro il licenziamento ingiusto si potesse comprimere lo spread o se la possibilità per l’impresa di contrattare con i suoi dipendenti uno alla volta – cosa peraltro ampiamente diffusa – potesse abbattere la mole di debito pubblico.
Ma quando un mantra si impone va seguito a ogni costo. E se prima sembrava fosse solo il ministro Sacconi a invocare riforme in profondità ora è tutto il governo, l’Europa intera e l’immancabile Presidente della Repubblica il cui ruolo di “premier ombra” sembra ormai conclamato. Il Capo dello Stato, infatti, interviene sulla bontà della concertazione – e fin qui va bene – sulla necessità di “ripensare agli ammortizzatori sociali” e addirittura sull’urgenza di “affrontare i nodi che sono già affrontati con l’accordo del 28 giugno tra le confederazioni sindacali, un accordo sottoscritto da tutti”. Altro che presidio agli alti dettati costituzionali, qui siamo nel campo della Repubblica presidenziale alla francese.
Ma, come detto, l’urgenza di rivedere il mercato del lavoro impone forzature se non colpi di mano. La riforma non è stata ancora presentata ma se ne intravedono più che le linee guida, le esigenze impellenti. L’idea del “contratto prevalente”, ad esempio, cioè un contratto che sostituisca le forme contrattuali atipiche (ma se è prevalente, vuol dire che non tutte scompariranno) per almeno tre anni, può essere positiva se davvero mette in soffitta co.co.pro. e similari ma continua ad avere come obiettivo l’immancabile articolo 18 per i neo-assunti. Nel caso di un intervento di questo tipo non si toccherebbero i diritti acquisiti al momento del varo della riforma – Monti su questo sembra essersi già espresso – ma si creerebbe un mercato del lavoro “duale” con lavoratori impiegati nelle stesse mansioni con diritti – e quindi condizioni complessive – differenti.
Le parole di Giorgio Napolitano, però, fanno pensare che l’intervento più rilevante possa riguardare gli ammortizzatori sociali. Parliamo di una spesa molto rilevante che oggi appare certamente squilibrata. Secondo il Bilancio Inps del 2010, la spesa complessiva per ammortizzatori sociali (compresi anche i contributi figurativi versati ai beneficiari dei trattamenti) è stata di 20,44 miliardi di euro (si noti che si tratta di risorse che pesano nel bilancio dell’Inps e che contribuiscono al disavanzo). Circa il doppio di quanto speso, 10,77 miliardi, nel 2008. Di questi circa 7 miliardi sono andati alla Cassa integrazione, poco più di 11 miliardi alla disoccupazione e 2,3 miliardi alla mobilità. In totale si tratta di quasi 4 milioni di beneficiari (3.925.950). Come fa notare l’Inps l’aumento più consistente riguarda la Cassa integrazione con il 40 per cento in più rispetto al 2009 mentre invece l’indennità “una tantum” per i co.co.pro. con attività esclusiva, destinata a garantire una forma di reddito ai parasubordinati che avessero perso il posto di lavoro, “si è rivelata poco efficace”. A fronte di uno stanziamento di 100 milioni di euro sono state liquidate indennità per 5,2 milioni di euro a 3.164 persone. Nel 2010 il numero di beneficiari è salito a 6.632 con una spesa di 19 milioni ma comunque a distanza siderale dal resto. Ancora l’Inps ammette che questo dato “testimonia che l’indennità è stata definita, sia legislativamente che amministrativamente, in modo poco adeguato rispetto alla realtà del mercato del lavoro dei parasubordinati”.
Lo squilibrio è dunque evidente ma gli sforzi sarebbero apprezzabili se tutta l’operazione non si risolvesse, come sembra, in una redistribuzione al ribasso, sottraendo risorse a una categoria per versarle alle altre. E’ chiaro che Cassa integrazione e disoccupazione tutelano solo un preciso settore del mondo del lavoro ma stabilire che queste tutele saranno ridotte significa ammettere oltre ogni evidenza che si pensa a un futuro del mondo del lavoro fatto di contratti saltuari e di instabilità crescente.
Che il futuro, in effetti, sia questo lo si era capito dal complesso dell’operazione avviata da Sergio Marchionne in Fiat, con la cancellazione del contratto nazionale sostituito da un più comodo contratto aziendale. Quello che non possiamo credere è che questo futuro sia denso di benefici per chi lavora anche perché sono i fatti a smentirlo. A cosa ha portato la progressiva de-regolamentazione del mercato del lavoro avviata nel 1997 da un governo di centrosinistra (Prodi) e proseguita dal governo di centrodestra (Berlusconi)? Le oltre 40 forme contrattuali che tutti dicono di voler cancellare sono quelle introdotte dai “pacchetto Treu” e dalla Legge 30 a suo tempo salutate come riforme salvifiche, degne di un mercato del lavoro adeguato agli standard internazionali. Abbiamo visto i risultati. Ora si vuole procedere a una parziale correzione per assistere il colpo definitivo all’ultima garanzia del lavoro dipendente, l’articolo 18 che, come abbiamo già scritto, rappresenta il solo deterrente per difendere i propri diritti. Solo che, fino a qualche tempo fa, a premere con forza sull’acceleratore, erano i poco gradevoli Sacconi e Brunetta. Oggi, invece, spingono a tavoletta gli eleganti e “sobri” salvatori della Patria.