La notizia è il licenziamento in tronco delle 239 lavoratrici della Omsa di Faenza. La Omsa produce calze e collant e ha deciso di delocalizzare la produzione in Serbia, dove il lavoro costa meno. Ha licenziato tutti con un fax: un mezzo arcaico (le dipendenti avevano un fax nelle loro abitazioni?) per una decisione senza appello.

La battaglia appassionata, organizzata e ben comunicata delle lavoratrici Omsa ha reso questa vertenza assai popolare sui media, un vero caso nazionale. Per questo motivo è diventata un simbolo della ‘resistenza’ del lavoro e dei lavoratori italiani alla tendenza centrifuga della globalizzazione. In un sistema aperto, le regole mondiali del mercato del lavoro e di quello dei consumi sono spesso più importanti della tutela del diritto dei lavoratori del posto di lavoro nella valutazione degli imprenditori, soprattutto quando devono decidere tra la propria salvezza e il fallimento.

Queste sono le nuove regole e se le contestiamo le dobbiamo contestare sempre. Non bisognerebbe dimenticarselo mai, anche quando i mercati (costantemente in cerca di rassicurazioni) sono improvvisamente percepiti come ‘amici’ solo perché accelerano la caduta di Berlusconi.

In questi giorni sono state proposte azioni di boicottaggio dei marchi Omsa (tra cui Golden Lady, Philippe Matignon, Serenella) come forma di ‘punizione’ per la scelta effettuata dai proprietari dell’azienda. Anche l’Italia dei Valori, a maggio, aveva sostenuto questa campagna. In alcuni casi il boicottaggio è accompagnato da argomentazioni piuttosto nette e da slogan come ‘Mai più Omsa’, ‘Contro gli sfruttatori di Omsa’, ‘Contro il comportamento arrogante’.

A questo punto bisogna porsi una serie di interrogativi: è giusto adottare questi comportamenti nei confronti di tutte le aziende italiane che delocalizzano la propria produzione in modo totale o parziale? Omsa ha preso questa decisione per abbattere i propri costi o per sopravvivere alle sfide del mercato? Sarebbe stato meglio licenziare e ridurre la produzione? E se sì, sulla base di quale criterio? Difficile trovare un’unica risposta inconfutabile. Piuttosto c’è un elemento che fa parte delle dinamiche del consumo (critico) e della comunicazione e che non può più essere ignorato: ogni scelta di un’azienda, dalle valutazioni strategiche alla gestione del personale, dal prezzo alla distribuzione dei prodotti e dei servizi, dalle scelte di marketing ai commenti dei clienti sul web, concorre al valore attribuito dai clienti ai prodotti stessi dunque impatta sui risultati di vendita e quindi sui fatturati.

Omsa deve dunque accettare l’idea che un cliente reale o potenziale dei collant possa decidere di non acquistare più prodotti per le proprie scelte aziendali: una beffa, perché per risparmiare sui costi si perderebbe ulteriore fatturato. Lo slogan più conosciuto della costellazione dei prodotti Omsa è il ‘I’m lost without you’ con cui, secondo l’azienda, le donne italiane comunicavano la necessità di avere una calza Golden Lady, oggi potrebbe essere uno sfottò ai consumatori verso Omsa, che sarebbe ‘persa’ se i clienti smettessero di comprare i loro prodotti a causa della delocalizzazione.

Le aziende italiane devono accettare l’idea che scelte poco concilianti nei confronti dei dipendenti possono avere ripercussioni molto problematiche sui bilanci.I consumatori italiani, pur obbligati a muoversi in binari sempre più stretti a causa della recessione e dei sacrifici chiesti dal ‘governo’, allargano sempre più lo spettro delle variabili da considerare prima di acquistare un prodotto. Il prezzo diventerà sempre più importante in tempi di crisi, ma si affacciano anche altre valutazioni pre-acquisto come l’impatto ambientale della produzione, le condizioni di lavoro dei dipendenti, l’origine del prodotto e la sua qualità.

I concorrenti italiani di Omsa, inoltre, hanno davanti a loro una grande opportunità: per attaccare l’attuale leader di mercato possono giocarsi la carta dell’italianità, del rispetto delle condizioni di lavoro, della resistenza in un mercato più costoso e a condizioni più difficili pur di non mandare lavoratori italiani per strada. Queste valutazioni sono assai più facili da effettuare in passato: se ci pensate, ognuno di noi, attraverso Internet potrebbe chiedere ai clienti Omsa se i loro prodotti meritano comunque di essere acquistati o se questa decisione strategica è sufficiente per cambiare marca e tutti potrebbero leggere le risposte pubbliche per farsi un’idea più precisa.

Sarei curioso di sapere se i dirigenti Omsa, prima di prendere la decisione di delocalizzare, hanno valutato l’impatto in termini di marketing di questa scelta e come pensano di rispondere a questa campagna diffusa di screditamento del marchio.

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