Comincia l’anno che può cambiare il mondo: i russi devono confermare o seppellire Putin mentre Obama azzoppato dalla crisi prova a restare alla Casa Bianca. Non è facile ma alla fine ce la farà per la scarsa consistenza degli avversari: repubblicani autistici, dietro le parole niente come i leghisti di casa nostra. La linea nera che unisce le loro speranze di rivincita è il rifiuto dello “straniero”. Xenofobia quasi demenziale nel paese che senza stranieri sarebbe disabitato: dal presidente all’ultimo chicanos. Se negli anni magri il razzismo può sembrare la scorciatoia verso la vittoria, questo razzismo complica le ambizioni di ogni candidato in corsa nelle primarie: senza il 40 per cento dei latini, passaporto stelle e strisce, impossibile per i repubblicani arrivare alla Casa Bianca. Ecco che Obama e la signora Clinton riversano ogni attenzione alla comunità sudamericana, milioni di voti che i repubblicani lasciano perdere aggrappati all’intransigenza degli ultras della Florida, vecchi cubani che non perdonano Castro, o ai piccoli fantasmi arrabbiati delle dittature disciolte. Obama la considera una cultura fuori tempo mentre i repubblicani rilanciano dio, patria e famiglia bianca come estrema novità. Distinguendo tra famiglia e famiglia: privilegi da difendere, miserie da sopportare: nessun travaso.
Anche i problemi dell’altra potenza si ingrossano di settimana in settimana. Putin può tornare presidente se le polizie funzionano come si deve: repressione e intimidazioni. La sua Russia non ha mai conosciuto una democrazia decente, adesso la distorsione agita le piazze rosse di Mosca dove le folle ormai non sopportano gli imbrogli. Complicato placarle, ma è la sterminata provincia, facile da manipolare, a salvare la rincorsa al Cremlino. Mentre la crisi rattrista economie private dagli affari dell’industria pesante, armi e bombardieri che non fanno mercato in mancanza delle belle guerre di Bush, Washington e Mosca vedono Pechino negli specchietti retrovisori. I cinesi stanno arrivando. Sono già arrivati in Africa e America Latina, ecco il problema che i nuovi presidenti dovranno risolvere.
Si vota anche in India: il risultato può dare qualche indicazione. Si vota in Messico dove la crisi rimanda migliaia di emigrati rimasti senza lavoro negli Stati Uniti. L’esperienza della destra sembra finita, favorito il vecchio Partito Rivoluzionario Istituzionale per 80 anni al potere fra imbrogli e disastri. Sprofondato e risorto, e il Messico torna al passato. Resta il presente furibondo di Chavez nel Venezuela che ha scoperto “immense riserve di petrolio”. Notizia buona e cattiva per gli Usa. Senza il greggio di Caracas non ce la fa ad andare avanti anche se non sopporta il rimbombo di un nazionalismo trasformato nel socialismo del ventunesimo secolo. Per fermarne la rielezione quasi sicura gli avversari speculano sulla malattia (quella malattia) che fa tribolare l’uomo che vorrebbe governare fino al 2019. Obama osserva un silenzio armato e occhi rivolti all’alleanza dei paesi del Pacifico, tigri dell’Asia e nazioni latine amiche: Cile, Perù, Colombia, lasciando al Brasile, sesta potenza davanti all’Inghilterra, il compito di gestire i paesi atlantici, Venezuela, Argentina, ciò che resta all’Avana.
Altre elezioni stanno per restringere certe vanità in affanno. Difficile che Sarkozy si confermi all’Eliseo mentre la Grecia della disperazione va al voto chissà con quali illusioni. Cambio di guardia anche a Teheran: l’Iran si prepara a scegliere (2013) il nuovo presidente, Ahmadinejad non può ripresentarsi ma il gioco Putin-Medvev insedia Esfandiar Rahim Mashei, sua ombra fedele. Insomma, la prigione non cambia, ma un anno è lungo, chissà cosa può succedere.
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Il Fatto Quotidiano, 3 Gennaio 2012