Il primo faccia a faccia è avvenuto alla presenza del capo della diplomazia giordana e dei rappresentanti di Usa, Ue, Russia e Onu. Un secondo incontro si terrà se si verificheranno condizioni che ad oggi sembrano non esserci. Sullo sfondo la campagna elettorale in America, le prove di forza iraniane nello Stretto di Hormutz e i dissidi tra gli ultraortodossi e il governo di Tel Aviv sui nuovi insediamenti
Un incontro preliminare, nulla di più. Di certo non il tanto atteso riavvio dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi. Comunque, pur sempre qualcosa, dopo oltre 15 mesi di gelo, segnati dall’iniziativa dell’Anp a settembre scorso, con la richiesta all’Onu per il riconoscimento di uno status diverso per la Palestina (leggi). Il primo faccia a faccia tra il capo della delegazione palestinese Saeb Erakat e quello della delegazione israeliana Yitzhak Molcho è iniziato martedì ad Amman, in Giordania. Non era un faccia a faccia diretto, piuttosto, quasi una mini-conferenza, con la presenza del capo della diplomazia giordana Nasser Jawdeh e i rappresentanti del cosiddetto “Quartetto” (Usa, Ue, Russia e Onu), che ha il compito di “facilitare” i negoziati tra le parti.
Prima dell’incontro, tutti, dai giordani ai rappresentanti internazionali, fino a quelli delle due parti coinvolte, hanno precisato alla stampa internazionale che appunto, si tratta solo di un colloquio preliminare a cui farà seguito, se ci saranno le condizioni, un altro incontro, solo tra israeliani e palestinesi, con i giordani presenti.
Le condizioni, però, è difficile che ci siano, a meno di un colpo di reni di cui né l’Autorità nazionale palestinese né il governo israeliano guidato da Benyamin Netanyahu sembrano avere la possibilità.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas, poche ore prima dell’inizio dell’incontro di Amman, ha ripetuto all’Associated Press, quali sono le posizioni palestinesi: confini del 1967 come base di trattativa, stato indipendente, Gerusalemme est e soprattutto congelamento dell’espansione degli insediamenti ebraici oltre la Linea Verde. Se queste condizioni saranno accettate – ha detto Abbas – allora i negoziati potranno riprendere. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, inoltre, i palestinesi avrebbero in mente una “data di scadenza” per la ripresa dei colloqui: il 26 gennaio, quando scadranno i quattro mesi fissati a settembre dal Quartetto per riavviare le trattative di pace. Se nulla accadrà entro quella data, l’Anp (peraltro alle prese con le perduranti divisioni intrapalestinesi, specialmente con Hamas) potrebbe lanciare una nuova “offensiva diplomatica” come quella dell’estate scorsa, per isolare ancora di più Israele sulla scena internazionale. Anche se è difficile che una simile iniziativa abbia più successo, specialmente nell’anno elettorale statunitense appena avviato. L’amministrazione Obama, tuttavia, potrebbe proprio per ragioni elettorali, premere su Israele – dopo la strenua difesa fatta a settembre all’Onu – affinché un accordo si raggiunga o quantomeno diventi possibile.
L’incontro di Amman ha suscitato le ire di Hamas, che Israele non vuole vedere in alcun governo nazionale palestinese, così come di altri gruppi islamisti attivi in Giordania, che hanno organizzato una manifestazione per contestare il vertice. Il re di Giordania, Abdullah II, spinge invece per una trattativa costruttiva, anche per cercare di disinnescare uno degli argomenti preferiti dei gruppi islamisti in Giordania, paese dove oltre metà della popolazione è di ascendenza palestinese e mantiene legami familiari con la Cisgiordania.
Il governo Netanyahu, da parte sua, non lancia segnali molto incoraggianti. Poche ore prima dell’incontro di Amman, infatti, il ministero per la Casa e la Israel land administration hanno pubblicato un bando per la costruzione di 300 nuove abitazioni tra gli insediamenti di Pisgat Ze’ev e Har Homa, quest’ultimo una delle colonie in più rapida crescita, tra Gerusalemme est e Betlemme. Ariel Atias, ministro per la Casa, ha detto che «è chiaro che quale che sia l’accordo, queste aree rimarranno sotto sovranità israeliana». In Israele, peraltro, dopo le proteste sociali contro il caro-vita esplose in estate, sono le organizzazioni ultraortodosse ad aver lanciato una durissima campagna contro il governo. Scintilla dell’ennesima lacerazione tra l’anima laica israeliana e quella ultraortodossa, le norme che secondo gli ultras dovrebbero regolare la separazione tra i sessi. A Gerusalemme, per la seconda volta in pochi giorni, sono apparsi manifesti contro il capo della polizia, Niso Shaham, raffigurato come Hitler. La «colpa» di Shaham sarebbe quella di aver fatto arrestare un ebreo ultraortodosso che aveva appiccato un incendio in un negozio di prodotto elettronici, considerati contrari alla Torah da alcuni rabbini oltranzisti. E pochi giorni fa alcune organizzazioni ultraortodosse hanno inscenato una manifestazione presentandosi con la divisa usata nei lager, paragonando lo stato israeliano laico al Terzo Reich.
Se a questo si aggiungono le preoccupazioni ricorrenti per le prove di forza iraniane nello stretto di Hormuz, si capisce come il negoziato con i palestinesi non sia in questo momento in cima ai pensieri del governo israeliano, che, in fondo, ha tutto da guadagnare da uno status quo che si trascina di fallimento in fallimento.
di Joseph Zarlingo