Il 4 gennaio del 2011 moriva Mohammed Bouazizi, il venditore ambulante tunisino diventato suo malgrado il simbolo di una stagione di rivolta. A un anno esatto di distanza la procura del Cairo chiede la condanna a morte per quello che fu padre e padrone della nazione, l’ex presidente Hosni Mubarak.
Trecentosessantacinque giorni di rivolta che hanno cambiato il mondo arabo più di interi decenni. Tre regimi ultradecennali sono crollati, altri traballano. E anche i paesi che sembrano immuni dal contagio rivoluzionario devono fare i conti con opinioni pubbliche sempre più irrequiete. Soprattutto, sulla scena mondiale hanno fatto irruzione i giovani arabi. Messi nell’angolo dalla politica dei loro governi, spesso con il sostegno dell’occidente, hanno saputo trasformare la frustrazione in rabbia. Le incognite sul futuro prossimo sono ancora moltissime, ma il terremoto sembra irreversibile.
Tunisi alla prova
L’anno della Tunisia è iniziato il 4 gennaio, quando in ospedale, dopo giorni di agonia, è morto Mohammed Bouazizi, il venditore ambulante di Sidi Bouzid la cui protesta contro gli abusi della polizia locale ha dato il via alla rivoluzione dei gelsomini. Dieci giorni dopo la morte di Bouazizi, assunto a simbolo di una protesta i cui elementi essenziali erano in fermento già da almeno due anni, il presidente padrone del paese, Zine el Abidine Ben Ali è stato costretto alla fuga. A ottobre, le prime elezioni democratiche dai tempi dell’indipendenza, si sono concluse con la vittoria del partito islamico moderato Ennhada e il 13 dicembre, quasi un anno esatto dopo il gesto estremo di Bouazizi, Moncef Marzuoki, dissidente di lungo corso e attivista per i diritti umani, è diventato presidente del paese. In bilico tra timori di una islamizzazione “soft” e il bisogno urgente di rilanciare l’economia, soprattutto per ridare speranza ai giovani che sono stati una delle anime della rivoluzione, la Tunisia guarda al 2012 come l’anno in cui la speranza per il futuro democratico del paese viene messa alla prova.
Piazza Tahrir
L’Egitto ha chiuso il 2011 quasi nello stesso modo in cui l’aveva iniziato. Piazza Tahrir in queste ultime settimane è tornata a essere il centro della protesta e della mobilitazione degli egiziani, come a gennaio, quando centinaia di migliaia di persone hanno tenuto il campo fino alle dimissioni ignominiose del presidente Mubarak, oggi sotto processo assieme ad alcuni suoi fedelissimi. Tra le due piazze, però, c’è una differenza fondamentale. A gennaio si trattava di cacciare il Faraone, dopo decenni di potere, oggi invece è la mobilitazione permanente è per proteggere la rivoluzione da un assedio almeno doppio: da un lato, l’esercito che ha smesso di essere il garante dei diritti degli egiziani, com’era stato all’inizio della rivoluzione, per diventare in modo sempre più chiaro il nuovo potere autoritario; dall’altro le forze rimaste legate al vecchio regime, tutt’altro che sconfitto a parte la famiglia Mubarak, che cercano di far deragliare la rivoluzione – o di farla virare verso un cambiamento solo di facciata. Su tutto, la vittoria elettorale annunciata delle forze islamiste, sia quelle più moderate dei Fratelli Musulmani, sia quelle salafite, getta un’ipoteca sul futuro prossimo del più popoloso paese arabo. Per l’Egitto, il 2012 sarò di sicuro un anno di difficile transizione, il cui esito è tutt’altro che scontato.
La nuova Libia
Sei mesi di guerra civile vera, l’intervento della Nato, una rivolta molto diversa da quella dei vicini egiziani e tunisini, per cacciare Muhammar Gheddafi dopo 42 anni di potere. La nuova Libia si affaccia al 2012 con molte ferite da rimarginare. Sia quelle materiali, a partire dalle infrastrutture del paese, danneggiate pesantemente dalla guerra e dai bombardamenti, sia quelle interiori, con una società politica da ricostruire quasi ex novo, superando diffidenze interne, divisioni di clan, pressioni e interessi internazionali. Più che della “qualità” delle rivoluzioni arabe, però, la Libia è un test per la sincerità dei governi occidentali (e non solo, vedi Turchia): avranno capito quanto è stato miope appoggiare le dittature pur di fare affari? I dubbi sono più che giustificati.
La Siria squassata
Il 2011, da marzo in poi, è stato l’anno in cui la Siria si è avviata su una pericolosissima china. Le proteste di massa non sono riuscite ad avere ragione dell’ostinata resistenza del regime che Bashar Assad ha ereditato da suo padre Hafez. La risposta anzi è stata sanguinosissima: oltre 5 mila morti, secondo le stime, prudenti, delle Nazioni Unite. Il paese è praticamente paralizzato e le manifestazioni continuano, nonostante l’accanimento del regime contro i gruppi di opposizione. Assad conta sul timore di una riscossa islamista, che ancora tiene avvinti al vecchio regime molti siriani, così come sulle alleanze internazionali, con Pechino e Mosca, che hanno impedito finora che l’Onu approvasse una risoluzione decisiva contro il governo di Damasco. La Lega Araba ha tentato, poche settimane fa, una mediazione, tutt’altro che efficace. Anche se è evidente che la Siria non può reggere a lungo in queste condizioni, lo stallo politico interno e internazionale sembra insuperabile. Con l’Iraq in fibrillazione per le tensioni politiche interne, e il Libano stranamente ancora calmo e in attesa degli sviluppi, la Siria – anche per i suoi legami con l’Iran – sarà di sicuro uno dei perni per decifrare la politica mediorientale del 2012. Un rebus che non promette soluzioni indolori.
Il Marocco, un anno dopo
La Primavera in Marocco è stata a un tempo precoce e debole. Il 20 febbraio 2011 le prime manifestazioni nelle città marocchine hanno cercato di raccogliere le indicazioni tunisine ed egiziane, ma senza che ci fosse quel risveglio di massa visto a Tunisi e al Cairo. Il Movimento 20 Febbraio, che raccoglie l’anima giovane e progressista della protesta contro il Makhzen, il Palazzo, spera di rilanciare con una grande giornata di mobilitazione nell’anniversario dei primi cortei. Intanto, però, la monarchia di Mohammed VI è corsa ai ripari: una nuova costituzione con qualche timida concessione che non scalfisce il potere reale, nuove elezioni, concluse con la vittoria del Pjd, partito islamico moderato e per nulla anti-sistema e soprattutto una politica di sapiente dosaggio di aperture (poche e molto oculate) e repressione intelligente, per disinnescare la protesta senza allarmare i preziosissimi alleati occidentali. Il 2012 del Marocco inizierà il 20 febbraio prossimo, quando si capirà se il movimento marocchino ha la possibilità di superare la soglia di non ritorno per il cambiamento del paese.
Il lontano Yemen
Isolato dal centro delle rivolte e avvitato sulle divisioni interne, sfruttate ad arte dall’ingombrante vicino saudita, lo Yemen non ha ancora trovato una via d’uscita alla crisi terminale del regime di Ali Abdullah Saleh, da 32 anni alla guida del paese, con un collaudato mix di nepotismo, clientele e gioco del divide et impera tra le componenti della società yemenita. Eppure, per quanto trattato con meno interesse dalla stampa occidentale, lo Yemen per molti versi è un paese essenziale, se non altro per la sua posizione geografica, a sigillare uno dei “colli di bottiglia” del commercio mondiale, lo stretto tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Difficilmente il 2012 porterà stabilità in quella che fu l’Arabia Felix ed è oggi il più povero tra i paesi arabi. E le scintille del crepuscolo del regime potrebbero trasmettersi al resto della penisola arabica.
di Joseph Zarlingo