Il prossimo sarà l’anno del rinnovo (o quasi) degli inquilini di case e palazzi del potere dopo la devastante crisi economica che ha ribaltato le certezze dell’Occidente. Ecco quali sono le scelte da compiere nello Speciale Fatti Nuovi, oggi in edicola.
Chiedersi come sarà il 2012 per l’economia italiana equivale a chiedersi come reagirà il nostro sistema produttivo e sociale alla “cura da cavallo” (Tito Boeri su lavoce. info) cui è stato sottoposto a partire dall’estate, fino al botto finale del governo Monti. Con interventi drastici, sbilanciati sulle entrate e che portano la pressione fiscale al 47 per cento del Pil, l’impatto recessivo è scontato e infatti le stime più recenti prevedono per l’anno prossimo un calo del Pil dell’ 1,6 per cento, che porterebbe il reddito complessivo del Paese a un livello inferiore di quasi il 4 per cento a quello del 2008. Bastano queste cifre per capire che far crescere finalmente l’economia italiana è allo stesso tempo un imperativo categorico, ma anche una sfida molto difficile, il cui esito dipende in parti uguali dalle scelte del governo Monti e da quelle dell’Europa.
Dire che bisogna stimolare la crescita è come dire che bisogna voler bene alla mamma: tutti entusiasticamente approvano. Il problema è come. Per ora, i principali Paesi, a cominciare da quelli dell’area dell’euro, hanno insistito sulla necessità di mettere ordine nelle finanze pubbliche e di perseguire il pareggio di bilancio. Ma non è esattamente quello che gran parte degli economisti ritiene necessario. Un economista del rango di Paul Krugman, ha detto: “nel 2011, come nel 2010, l’America era tecnicamente in ripresa, ma continuava a essere afflitta da una disoccupazione drammaticamente alta. Eppure, negli ultimi due anni, il dibattito a Washington riguardava qualcos’altro: la pretesa urgente necessità di ridurre il deficit di bilancio. Questo errore di prospettiva dimostra quanto il Congresso sia lontano dalle sofferenze dell’americano comune”.
La situazione europea non è strettamente paragonabile a quella americana, ma l’ultima lapidaria frase del premio Nobel può applicarsi anche a molti politici europei, a cominciare dal duo Sarkozy-Merkel che sembra sbandierare il mito del pareggio di bilancio soprattutto per nascondere l’incapacità di dare risposte concrete e decisive alla crisi europea. Il 2011 si è consumato fra l’attesa di summit che avrebbero dovuto trovare una soluzione definitiva (il fondo europeo, gli eurobond, il patto fiscale e via elencando) e la delusione di fronte ai soliti risicati compromessi (l’ultimo a prezzo del veto britannico) che non hanno risolto assolutamente nulla. La vera incognita del 2012 è quale sarà il livello dei tassi di interesse (cioè gli spread) che il mercato chiederà ai paesi più esposti alla crisi, a cominciare da Italia e Spagna. Una differenza di cinque punti percentuali con la Germania, come quella di oggi, non solo rende il pareggio di bilancio ancora più lontano, ma aumenta in maniera insostenibile i costi finanziari per famiglie e imprese, aumentando gli effetti depressivi e facendo avvitare l’economia in una spirale senza fine.
È ormai chiaro che in mancanza di una chiara e decisa risposta europea, non basterà la Bce a togliere le castagne dal fuoco e il 2012 rischia di presentarsi come un remake dell’anno appena trascorso. La settimana prossima già prevede un nuovo summit: avremo presto indicazioni su cosa ci attende. Se arriveranno solo sorrisi e annunci trionfalistici, meglio allacciare le cinture. La crescita economica italiana dipende invece dalle politiche che il governo ha annunciato per i prossimi giorni. Saranno adeguate alla gravità del momento? Difficile dire, per ora, senza conoscere il merito delle proposte. Ma c’è una questione di metodo che si può fin d’ora indicare. Quando si è trattato di fronteggiare l’emergenza economica, l’Italia ha già dimostrato di essere capace di dare risposte drastiche. Ma ha scelto la strada dell’accordo con le parti sociali, non la logica oggi cara a Marchionne del “prendere o lasciare”. Un governo tecnico come quello presieduto da Carlo Azeglio Ciampi lo ha fatto nel 1993 con uno storico accordo sulla scala mobile. Sarà bene ricordarselo.
Il Fatto Quotidiano, 4 Gennaio 2012