Confesso di non aver avuto mai una curiosità eccessiva per gli spettacoli teatrali per bambini: semplicemente non ci ho mai fatto troppo caso. Un teatro di serie B? Più o meno così. Forse è quello che capita a molti di coloro che non hanno figli o nipoti e che mai si sognerebbero di andare a vedere le avventure di Pippi calzelunghe o Cappuccetto rosso. Poi però succede che quando un bambino ce l’hai e inizia ad avere un’età in cui ci si preoccupa di fargli fare cose, improvvisamente ti si spalanca un mondo. Quello che fino a due giorni prima ti sembrava impensabile diventa realtà e ti ritrovi a navigare in internet a caccia di teatri adatti a un pubblico under 6.
Dire che a questo punto la sorpresa è grande e che ci sono tanti spettacoli, molti dei quali di qualità, sarebbe banale e scontato, anche se vero. Teatri di marionette, laboratori, commedie, musica, favole, balletti: basta provare a fare una ricerca in rete, tra i cartelloni delle principali città italiane, per rendersi conto della ricchezza dell’offerta, soprattutto in periodi come questo, tradizionalmente dedicati all’infanzia.
Quello che più mi stupisce, in realtà, è scoprire un modo diverso di stare a teatro. Sì perché ritrovandosi quasi per caso in una platea composta in gran parte di bambini, si sperimenta una dimensione completamente inedita di visione. Intanto i bambini sono spettatori fuori dal comune: si pongono con un atteggiamento misto di curiosità e timore di fronte ad una situazione che non conoscono. Ma soprattutto non si comportano come un pubblico normale, perché non accettano la prima regola fondamentale dello stare a teatro, quella per cui si sta seduti in silenzio a guardare. Loro no: loro si alzano e parlottano con i vicini, si agitano sulle poltrone, magari si arrampicano perché non vedono bene.
La mia impressione è che in contesti simili si possa recuperare la dimensione originaria del teatro come gioco, per cui la recitazione non è altro che una ripetizione dei travestimenti e delle finzioni infantili (e non è un caso se sia in inglese che in francese le due attività siano indicate dallo stesso verbo: to play e jouer). Un gioco che nasce dalla totale identificazione e che ha come effetto più eclatante la rottura di quella che convenzionalmente viene chiamata “quarta parete”, cioè la divisione immaginaria che separa la scena dalla platea. La sensazione è che gli ammiccamenti degli attori ai bambini, spesso invitati a partecipare attivamente alla messinscena, siano pensati in risposta alla tendenza di questo pubblico speciale a intervenire. E allora i loro commenti entrano a far parte dello spettacolo di buon diritto.
Spesso questi testi sono tratti da favole che i bambini sanno a memoria. Nessuna sorpresa quindi: sono lì che anticipano la trama, o che si chiedono quando finalmente arriverà il lupo. Non si sconvolgono nemmeno troppo del confronto con il loro immaginario cinematografico, perché questa realtà teatrale, che è fatta con pochi soldi e che lotta per sopravvivere nonostante gli ingenti tagli al settore, riesce comunque a mantenere uno standard alto.
Mentre aspettano il momento clou, i bambini cercano elementi narrativi che già conoscono, perché della storia, si sa, amano in modo speciale la reiterazione. Non così i genitori, abituati dai loro pargoli a ripetere ossessivamente racconti e a rivedere miliardi di volte lo stesso video su YouTube. Qualche padre approfitta della situazione per sonnecchiare in fondo alla sala, tanto già lo sa che a casa si continuerà a parlare molto spesso del pomeriggio a teatro.