Il libro che vi consiglio oggi è dunque Il limbo delle fantasticazioni (Quodlibet, 2009, Euro 12,50, 143 pp.) e se ve ne parlo a distanza di quasi tre anni dalla sua uscita è perché è uno di quei testi senza tempo, che non ci si deve far scappare. Cavazzoni tratta di cosa è l’arte, cosa è la letteratura e cosa è la critica letteraria, ma lo fa in modo arguto e diverso dai soliti sproloqui in cui spesso si avventa la critica letteraria di basso cabotaggio: “Se potessi legiferare, decreterei che la questione dell’arte sia d’ora in poi trascurata, e che la cosiddetta letteratura coi suoi generi […] le sue figure […], con la sua organizzazione di giudici, la sua rete di promozione, le sue teorie (e la domanda tipica: che cos’è la letteratura?) decreterei che la letteratura sia un caso particolare, piccolo (anche se supponente e aggressivo), del più vasto, vastissimo e libero limbo delle fantasticazioni. Dico limbo perché, come si sa, nel limbo sostavano i non battezzati; e dico fantasticazioni per sottrarre le scritture all’apparato ministeriale della letteratura“. (26)
La letteratura come caso particolare del più vasto limbo delle fantasticazioni. La letteratura come qualcosa di molto personale, che non deve rispondere a formule, in grado di rendere emozioni universali partendo dal particolare. Cavazzoni sostiene che l’arte è sempre un tentativo di duplicazione da una soggettiva personale. E per spiegarlo fa l’esempio del pittore che va in campagna a riprodurre una particolare mattina di brina in campagna. Al termine della lunga descrizione su tutto ciò che il pittore necessita e su tutti i dubbi da superare, Cavazzoni conclude: “In verità il pittore, specie se è un pittore anonimo e ignoto, è preso di tanto in tanto dallo spavento del nulla, che tutto corra verso il nulla, lui compreso, il condominio e sua moglie compresi, ma anche purtroppo quella mattina di brina mattutina sulle colline; e lui vorrebbe porci rimedio. Questa faccenda della duplicazione nasce da qui, checché se ne dica.” (67).
E’ proprio così: l’arte nasce dalla voglia di duplicare le cose, di fermare il tempo, di lasciare una traccia, di impedire – puerilmente – che una particolare mattina di brina in campagna passi e venga dimenticata per sempre. Motivo per cui tutti i romanzi hanno un che di autobiografico: il tema scelto dall’autore, anzitutto, ma anche il modo di presentarlo, che fa leva sulla memoria o sul modo di narrare, necessariamente una prospettiva soggettiva.
Sono diversi i passi di Cavazzoni che potrebbero essi messi in cornice: io ho selezionato quella che mi è sembrata una giusta collocazione del peso da riservare alla critica letteraria: “Tutta questa concezione aveva peso sull’apparato di apprezzamento e sull’idea che ci si faceva di un’opera, alimentando la chiacchiera di accoglienza di un’opera; in parte influiva sull’autore, cioè sull’idea che l’autore aveva di sé e del suo lavoro. Ma la produzione di scritture è per fortuna anche in una certa misura indipendente dalla loro teorizzazione.” (44)
Imperdibili anche le pagine sull’intertestualità, che lascio ai lettori scoprire, mentre suonano troppo amare quelle sul mondo editoriale italiano, che a detta di Cavazzoni, “è fatto di ladri, perché ho sentito ripetutamente di gente che ha inviato il suo dattiloscritto […] e se lo è trovato di lì a poco già stampato in vendita in libreria” (69). A nome di tutti gli scriventi e gli scrittori non famosi d’Italia, speriamo che ciò che ha sentito Cavazzoni non corrisponda al vero.