Era il 1977. Le tensioni sociali e la contestazione studentesca dominavano le cronache italiane. A febbraio Luciano Lama veniva cacciato dalla Sapienza e sulle mura di quella stessa università compariva la scritta: «Il deserto cresce, guai a chi nasconde deserti dentro di sé». Era uno degli slogan in voga. Ed era, soprattutto, una frase dello Zarathustra di Nietzsche.
Dopo qualche mese, nell’estate dello stesso anno, il «Corriere della Sera» riportava la notizia di un convegno nietzscheano a Cefalù nel quale, con molto stupore, si sottolineava «il nuovo interesse di intellettuali antifascisti e democratici di sinistra per l’autore “innominabile” dello Zarathustra». E in quegli stessi giorni Giorgio Almirante, leader dell’Msi, in un comizio esclamava malinconicamente: «adesso ci vogliono scippare anche Nietzsche!». Non era certo un caso.
Nietzsche è stato il filosofo più controverso, dibattuto e tirato per la giacca d’un intero secolo. È una storia lunga e complicata: dalla “nazificazione” del suo pensiero alla depoliticizzazione, in nome di un ritorno all’ambito della storia della filosofia; infine l’uso che le varie stagioni politiche ne hanno fatto. Nietzsche, suo malgrado, è stata un’etichetta prestigiosa (o no, a seconda dei punti di vista) sotto cui iscrivere visioni del mondo e filosofie della storia.
Da noi, in Italia, queste utilizzazioni del pensatore tedesco hanno assunto colorature e contorni sino in fondo mai studiati. Lo fa oggi Stefano Azzarà nel suo Un Nietzsche italiano (manifestolibri): il libro ricostruisce la fortuna che ha avuto l’immagine del filosofo tedesco alla luce delle interpretazioni che ne ha dato Gianni Vattimo. Ne emerge un quadro interessante sotto più punti di vista. Anzitutto come un pensatore considerato reazionario e conservatore diventi, in breve tempo, icona di molti intellettuali dell’estrema sinistra. E poi perché questo slittamento che porta Nietzsche in un «graduale ma pieno assorbimento nel pantheon culturale della sinistra», avviene in un concatenamento di fatti politici.
Quindi non si tratta soltanto di storia delle idee: qui siamo di fronte alla realtà conflittuale degli anni Sessanta e Settanta, alla violenza, al terrorismo. E l’impatto di tutto ciò sui ceti intellettuali. In quegli anni la società non appare abbastanza rivoluzionaria, e Nietzsche viene assunto, scrive Azzarà, a modello teorico per «l’estrema radicalizzazione della critica alla democrazia capitalista»: più critico, più spietato, più rivoluzionario.
Era colui a partire dal quale si poteva mettere in discussione il falso illuminismo delle società occidentali e, allo stesso tempo, rispondeva agli afflati anticomunisti della sinistra extraparlamentare perché dava voce al dissenso nei confronti del «socialismo sovietico e del suo “volto burocratico e autoritario”». Per questo fu eletto a «nonno della contestazione studentesca». Ad Azzarà riesce perciò non soltanto la ricostruzione, rigorosa, del percorso teorico di Vattimo. Attraverso questo percorso disegnare anche una mappa sociale e politica di quegli anni, con tutte le insidie e gli incidenti che hanno caratterizzato non soltanto il filosofo torinese, ma un’intera generazione d’intellettuali legati alla sinistra.
E pone tutta una serie di interrogativi non sempre risolti: dall’incidenza del terrorismo – c’è una frase di Vattimo nella quale il filosofo proclamava che «la critica delle armi deve realizzare ciò che da sole non possono fare le armi della critica» (che però altri non è che il giovane Marx) – al loro “riflusso” neoliberale in anni più recenti. Ha ragione l’autore quando scrive che Nietzsche ha giocato un ruolo decisivo nella nostra società «che non è possibile rimuovere con una semplice demonizzazione o con un’alzata di spalle». E nemmeno, si può aggiungere, quella stagione può esser liquidata o assolta senza fare i conti con tutti i suoi contesti, teorici e non. Un’alzata di spalle non vi seppellirà.