Cronaca

Così si muore nella Roma di Alemanno

C’è una nemesi spietata nella fenomenologia da Romanzo criminale che in queste ore sta sgretolando come un biscotto l’immagine della Roma legge-e-ordine vagheggiata da Gianni Alemanno. E c’è un contrappasso nel destino di chi aveva cavalcato la campagna elettorale all’insegna della sicurezza, e ora si ritrova immerso in un western metropolitano livido e feroce: sparatorie, regolamenti di conti, taglieggiatori dal grilletto facile, rapinatori strafatti di coca che uccidono bambini.

Nel 2008 il futuro sindaco Alemanno fu bravissimo nell’accreditare l’idea che i due delitti di quella campagna elettorale – il drammatico martirio di Giovanna Reggiani, alla stazione di Tor di Quinto, e lo stupro della ragazza del Lesotho alla Storta – fossero figli del lassismo della sinistra, un sottoprodotto malato del rinascimento veltroniano, male oscuro di una città sfavillante e solare, in cui i festival cinematografici duellavano con Venezia e le notti bianche illuminavano gli incassi dei commercianti.

Alemanno riuscì abilmente a dipingere questa suggestione, a imporre il tema della sicurezza a Francesco Rutelli (che per recuperare propose la delirante idea di un braccialetto anticrimine per tutte le donne romane!). Ma era vero il contrario: se si accetta l’idea che le amministrazioni di sinistra avessero indirettamente propiziato quei delitti, vorrebbe dire che ora è la nuova giunta capitolina a battezzare la contabilità macabra dei 35 omicidi del 2011. E se, invece, si ipotizza che il sindaco conti poco o nulla nella gestione della sicurezza, naufraga il primo punto di forza della comunicazione politica del centrodestra.

Per questo ieri Walter Veltroni si è tolto un sassolino dalle scarpe: “In quell’occasione – ha detto al Tg 3 – Alemanno fece uno dei gesti politici più orrendi che io ricordo in questi anni, andando sul luogo dove era morta una persona a fare campagna elettorale”. Ma se, invece, oltre che a contarli si prova a pesarli, questi delitti, si scopre che la politica c’entra meno, oppure moltissimo, ma in modo indiretto.

Intanto non si muore perché c’è poca fermezza, ma perché le periferie, abbandonate, si spengono. La giunta Veltroni ebbe il merito innegabile di fare di tutto per animarle: aprirono centinaia di negozi, librerie, pub, ristoranti, esercizi tipici, tutti fuori dal centro storico. Il primo gesto che fece clamore nel tempo della giunta Alemanno, la famosa aggressione all’alimentari di via Macerata (dopo deliranti sospetti su fantomatiche bande naziste, rivendicò un coatto che aveva tatuato Che Guevara), non documentava tanto un clima d’odio etnico e razziale, ma era piuttosto un campanello di allarme: i quartieri popolari, poco illuminati, trascurati, degradati, trasformati da vetrine in piazze di spaccio, diventano zone di guerra tra poveri.

Ma se si prova a pesare l’alfabeto dei delitti di questo lungo e spietato anno, ci si rende conto che spesso sono il segnale di una guerra di egemonia fra bande per il controllo dei quartieri. Molti atti di violenza, non solo delitti, ma anche gambizzazioni, si verificano nel quadrante sud-est della città, in quella porzione di periferie che ha il suo cuore intorno a Torbellamonaca, e nel cuneo che dal raccordo si infila nel centro correndo fra Tuscolana e Casilina.

Se si guardano le fedine penali dei responsabili accertati, per esempio, si scopre che spesso anche le vittime delle aggressioni sono coinvolte in una guerra territoriale: pregiudicati, recidivi, gente appena uscita di galera. In questo scenario si manifestano personaggi che paiono saltati fuori dai romanzi di Massimo De Cataldo: maschere allucinate come quella di Andrea Vella, ex guardia giurata, killer sieropositivo, già omicida del suo fidanzato trans, fermato dai carabinieri con una beretta armata e 15 colpi in canna proprio a Torbellamonaca. Anche il duplice omicidio di Ostia è stato letto dagli inquirenti come un regolamento di conti: due imprenditori, appena tornati dall’Egitto, proprietari di alberghi, imprese, società. E che dire di Massimiliano Cogliano, pugile, buttafuori, atteso in strada per una esecuzione brutale? Aveva forse, senza saperlo, sbarrato la strada al figlio di qualche capetto?

A preoccupare chi indaga non è tanto il numero degli omicidi, ma la qualità: aumentano gli agguati, le sparatorie, le esecuzioni. Alcuni delitti, come quello del gioielliere Flavio Simmi, freddato con nove colpi calibro 9 in via Grazioli Lante, nel cuore di Prati, il 5 luglio scorso, erano stati addirittura annunciati da una gambizzazione a gennaio e rivelano uno scenario più grande. E Simmi, figlio di “Robbertone” – un nome legato alla Banda della Magliana finito in carcere nel 1993, con l’accusa di usura, da cui poi fu scagionato – era così terrorizzato da chiedere protezione in ambienti malavitosi.

Delitti come questo sono il segnale di una battaglia per l’egemonia in cui il potere (esattamente come negli anni ’ 80) si conquista con la calibro 9. Le guerre criminali aumentano la circolazione delle armi, rendono pericolosi anche i due rapinatori tossicodipendenti che avantieri hanno freddato il barista cinese e la sua bimba.

Ecco perché appare profetica, riletta oggi, l’intervista con cui il segretario del Sap, Francesco Paolo Russo, lanciava un allarme disperato sul Corriere della Sera (solo due mesi fa!): “A Roma mancano 1.500 poliziotti. C’è solo un agente ogni 980 abitanti, al Casilino ci sono soltanto due auto, per coprire una superficie di 113 chilometri quadrati, pari a quella del comune di Napoli”.

E deve far riflettere anche l’intervista agghiacciante del Tg 5 a Luigi Onofri, padre di Stefano, detto “il gigante buono”, ragazzone ucciso da colpi di mazza da baseball, con una tecnica che aveva fatto evocare l’efferatezza di Bastardi senza gloria di Tarantino: “Io non voglio vendette – ha denunciato papà Luigi – ma come è possibile che dopo un anno, uno dei tre condannati torni a casa ai domiciliari”.

In questa Roma criminale e pulp, l’ultima beffa è questa: i poliziotti di quartiere restano una favola amena da campagna elettorale e chi spara sa che prima o poi può uscire. Il primo pericolo sono i pregiudicati che nell’Italia dei processi brevi (o lunghi) dribblano le condanne.

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2012