Tra le tante conseguenze depressive dell’interminabile periodo di declino in cui stiamo languendo c’è la crescente sensazione ansiogena di un mondo in esaurimento; che si porta, via insieme alle tante sicurezze (reali e non) in cui ci crogiolavamo, anche una serie di eccessi da cui non è poi così male liberarci. Eccessi che qualcuno definisce “l’ultima illusione modernista” di vivere in una realtà dalle potenzialità materiali infinite.
Certo, fenomeno ancora allo stato latente. Di cui potremmo individuare una pur timida traccia nel generale applauso che ora accompagna la sconsacrazione del cafonal perpetrata dagli agenti della Finanza nelle puntate ispettive di Capodanno tra le pacchianerie esibizionistiche della fauna in passeggio a Cortina d’Ampezzo. Ennesimo schiaffo incosciente – quello dello struscio riccastro – inferto al misero Natale dei più, tra spensierati olocausti di visoni e il rombare di SUV formato TIR.
Ma il becerume oversize della neoborghesia famelica di possessività ostentata è solo lo sgradevole cascame dell’involgarimento di lunga durata che ha marcato nel profondo un’epoca di eccessi consumistici; trasformati in miti fasulli, la cui coda produce tuttora effetti persistenti. A tutti i livelli. Infatti, mentre i negozi sono vuoti e le merci restano invendute, salta agli occhi il contrasto dell’affollarsi nevrotico nei supermercati dell’elettrodomestico attorno ai banchi che esibiscono i gadget con il marchio Apple e simili (iPad, iPhone, eccetera). Conferma dell’avvenuta beatificazione del massimo eroe di un’epopea del marketing – Steve Jobs – asceso in articulo mortis a “Leonardo del Terzo Millennio” o a “profeta del bello”; quando è stato soltanto uno straordinario creatore di bisogni indotti, resi accessibili alle tasche occidentali attraverso lo sfrenato sfruttamento della manodopera cinese (culminato nei troppo spesso non collegati casi di suicidio).
Intanto la colonna sonora dell’epoca continua a essere la musica plastificata immessa sul mercato dall’industria discografica anglo-americana monopolistica (con i suoi epigoni anche nostrani), effetto di un’operazione ricostruita brillantemente dallo storico Eric Hobsbawm risalente alla metà degli anni Cinquanta: l’uscita della musica rock dal ghetto in cui era confinata come “Race” o “Rhythm and Blues”, per diventare il linguaggio universale dei giovani e dei giovanili. Un successo eterodiretto, ottenuto grazie a spudorate operazioni commerciali gabellate come rivoluzione liberatoria autodiretta (che – di conseguenza – silenziava ogni altro suono non riconducibile/omologabile a quello dominante). Questa è la storia vera, con tutto il dovuto rispetto per gli apologeti dei vari poppismi come forma d’arte contemporanea e delle loro star.
Facendo un po’ di telegrafica analisi sistemica retrospettiva, due sono i motori impazziti che hanno determinato e imposto l’età dell’eccesso, da cui (forse) stiamo prendendo le distanze: non solo l’iperconsumismo occidentale, in cui l’Avere diventa un pallido simulacro dell’Essere, ma anche la Guerra Fredda, come incanaglimento della politica al servizio degli equilibri dominanti (la spartizione del mondo tra le due Superpotenze). Dunque, un eccesso di mercificazione che ha prodotto la massificazione del gusto in base alle scelte delle centrali che determinano gli status symbol del tempo, un eccesso di paura come nevrotizzazione dei modelli di comportamento e degli stili di vita per orientare le scelte collettive e cortocircuitare la democrazia intesa come decisione pubblica (ma anche per selezionare personale politico colluso con le logiche proprie dell’ordine vigente). Da qui la situazione paradossale per cui ora dovremmo uscire dall’età dell’eccesso guidati dalle leadership e dai modelli di rappresentazione forgiati nelle matrici di tale eccesso.
Per quest’ultimo aspetto – venendo al caso italiano – una situazione che Primo Levi descriveva quasi vent’anni fa in termini di vergogna nazionale collettiva. Profeticamente: “accade sovente, in questi tempi, di ascoltare gente che dice di vergognarsi di essere italiana. In realtà abbiamo buone ragioni di vergognarci: prima fra tutte, il non essere stati capaci di esprimere una classe politica che ci rappresenti, e di tollerarne da trent’anni una che non ci rappresenta”.