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Guantanamo: una promessa mancata

Una prigione “umana, ma non confortevole”: così il generale Mike Lehnert definiva, il 10 gennaio 2002, dieci anni or sono, la prigione allestita a Guantanamo, base americana all’estremità orientale di Cuba, per accogliere i prigionieri di guerra fatti in Afghanistan – talebani e membri di al Qaida – presi sotto custodia degli Stati Uniti. Citai le parole del generale in un dispaccio per l’Ansa, riferendo dichiarazioni alla Ap: Lehnert comandava una task force di 660 elementi incaricata della costruzione di Campo Raggi X, circondato da torri di guardia e cinto da filo spinato.

Proprio quel giorno, cominciarono a giungervi dall’Afghanistan i detenuti, caricati su aerei cargo militari C-141 sulla base di Bagram, vicino a Kabul, o a Kandahar: allo sbarco, alcuni, di loro, tute arancioni, scarpe bianche, capelli rasati, incappucciati e con gli occhi bendati, mani legate, catene ai piedi, davano l’impressione di cercare di ribellarsi, ma erano chiaramente disorientati.

Il tono di quello e di altri dispacci, non solo miei e non solo dell’Ansa, fa chiaramente trasparire che i cronisti di quei giorni non capivano di essere testimoni dell’inizio di una delle vicende più contraddittorie e più degradanti della guerra al terrorismo: la detenzione, per anni, sommaria e illegale, di uomini e ragazzi, magari colpevoli d’atroci crimini e portatori di ideologie dell’odio, ma contro la stragrande maggioranza dei quali, individualmente, la giustizia americana e internazionale non sarebbe stata in grado di formulare una sola singola accusa giuridicamente fondata né d’individuare sedi di giudizio adeguate. Tribunali militari, commissioni speciali, corti di giustizia ordinarie: le Amministrazioni americane, quelle Bush prima, quella Obama poi, hanno oscillato di soluzione in soluzione, senza riuscire a trovarne una che soddisfacesse le ragioni della giustizia e del rispetto dei diritti dell’uomo.

Certo, il clima in cui l’idea della prigione di Guantanamo nacque era ancora quello degli attacchi all’America dell’11 Settembre 2001, appena quattro mesi prima: la guerra in Afghanistan era stata lanciata, il regime dei talebani a Kabul era stato rovesciato, sui campi di battaglia venivano catturati a bizzeffe “nemici combattenti” che custodire laggiù sarebbe stato rischioso. A Mazar-i-Sharif, un’insurrezione di prigionieri di guerra a fine novembre fece centinaia di vittime, fra cui l’agente della Cia Mike Spann, il primo americano caduto in Afghanistan. E i portavoce militari vantavano la massima sicurezza di Campo Raggi X, ma assicuravano che i detenuti sarebbero stati trattati nel rispetto della convenzione di Ginevra e che sarebbero stati loro garantiti contatti con la Croce rossa e con altre organizzazioni umanitarie non governative.

La storia della prigione di Guantanamo s’è poi intrecciata a tutte le forzature del diritto compiute nella guerra al terrorismo: la pratica delle ‘renditions’, la tolleranza della tortura, i trattamenti umilianti inflitti ai detenuti da secondini militari statunitensi – le foto del carcere di Abu Ghraib in Iraq fecero più danni alla credibilità dell’America di qualsiasi battaglia perduta -. La popolazione del Campo, che si pensava potesse toccare le 2.200 unità, non ha mai superato qualche centinaio di persone ed è ora scesa intorno alle 150 unità: detenuti liberati, o trasferiti nei Paesi di provenienza – anche l’Italia – o di cattura, o portati in prigioni continentali statunitensi; quelli giudicati si contano sulle dita di una mano.

La chiusura della prigione di Guantanamo era una promessa elettorale del presidente Obama: sarà una promessa mancata nel primo mandato. Tre anni non sono bastati a realizzarla, né l’obiettivo pare vicino: un po’ perché il mostro alimenta se stesso (quegli uomini non si sa perché siano detenuti, ma liberarli senza motivazione equivarrebbe ad ammettere di avere compiuto abusi); ed un po’ perché il partito della sicurezza, o della paura, resta forte negli Usa (del resto, molti degli ex di Guantanamo sono poi ricomparsi con ruoli chiave nel terrorismo integralista mondiale; e uno, oggi, negozia per i talebani la ‘riconciliazione’ in Afghanistan).

Ma, ogni giorno che passa, la prigione di Guantanamo è una vittoria dei terroristi: mostra come l’Occidente sia pronto a rinunciare al rispetto dei propri principi di giustizia, equità, tolleranza, quando si tratta della propria sicurezza e dei diritti altrui. Presidente Obama, per piacere, chiudi quel carcere!