C’è tempo dodici mesi da oggi per ogni commerciante pakistano, cinese, nordafricano o russo del Comune di Bologna, per mettere a norma le insegne del proprio negozio scritte in lingua straniera. La giunta del sindaco Merola, con il plauso dell’opposizione del centrodestra locale in consiglio comunale, ha fatto entrare in vigore la legge che obbliga i negozianti extracomunitari a tradurre in italiano le scritte sulle vetrine, o sui teloni per l’ombra estiva, pena il pagamento della sanzione sulla cartellonistica prevista dal codice della strada.

La scritta dovrà essere leggibile, quindi di dimensioni accettabili. Esenti dal provvedimento le marche registrate con copyright e i termini ormai entrati nel linguaggio comune, come il celebre kebab.

Per l’assessore al commercio Nadia Monti (Idv) le ragioni principali sono quelle dell’integrazione linguistica e d’identificazione immediata dell’offerta commerciale: “Da consumatore devo riconoscere immediatamente il prodotto e la merceologia che viene venduta in una data attività. L’integrazione passa anche da questo. In zone definite come Chinatown, che si identificano con insegne in lingua senza utilizzare una traduzione, mi viene da pensare ci sia una volontà di isolarsi, e lo dico con amarezza. L’integrazione passa da noi che accogliamo, ma ci dev’essere anche l’incontro”.

Un provvedimento che ha un unico precedente in Italia, a Novara. Nell’ottobre 2010 la giunta di centrodestra all’epoca orfana del sindaco leghista Giordano migrato in consiglio regionale, si era affidata momentaneamente al vicesindaco Pdl, Silvana Moscatelli, per emettere l’ordinanza all’unanimità. Là il presunto problema era circoscritto per il borgo-quartiere di Sant’Agabio, mentre a Bologna si estenderebbe tra i dedali della cittadella universitaria e oramai per ogni quartiere al di là dei viali di circonvallazione.

La scelta della giunta novarese seguiva una proposta del gruppo parlamentare della Lega Nord datato aprile 2010 che oltre allo stop delle insegne etniche imponeva agli extracomunitari titolari di attività commerciali un attestato di conoscenza della lingua italiana. Idea che venne comunque bocciata e venne definita dal deputato Idv, Leoluca Orlando: “Una pericolosa deriva d’intolleranza”.

Così Bologna, una delle città storicamente più aperte agli ultimi e più all’avanguardia rispetto all’integrazione tra differenti culture, si appresta a ragionare anche sulla seconda parte della proposta Monti che a Novara è stata già applicata: negozi e laboratori etnici non potranno aprire a meno di 150 metri l’uno dall’altro. “Stiamo studiando i progetti di riqualificazione commerciale, ma la procedura partecipata ha bisogno di tempo – spiega la dipietrista Monti – intendiamo comunque adottare misure che non favoriscano la concentrazione troppo elevata della presenza di attività di vendita di un’unica tipologia. Per favorire l’integrazione è necessario che la popolazione straniera e le attività economiche che tendono a soddisfare i loro bisogni siano distribuite in modo più omogeneo nel territorio comunale”.

d.t.

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