Infatti se arte & il denaro sono spesso stati alleati: «Le grandi famiglie di banchieri toscani hanno lasciato testimonianze del proprio talento finanziario non solo accumulando fortune, ma anche traducendole in opere d’arte che sono divenute parte del patrimonio culturale», puntualizza Lorenzo Bini Smaghi, presidente della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze, dove è ancora in corso – fino al 22 gennaio – la mostra I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità.
La mostra curata dalla storica dell’arte Ludovica Sebregondi e dallo scrittore inglese Tim Parks, dipana un percorso storico-tematico che racconta la nascita, l’evoluzione e, soprattutto, il crollo del modello del liberismo economico d’allora e fors’anche quello di adesso.
Un percorso che partendo dall’invenzione della doppia moneta – il fiorino d’oro per gli abbienti e il picciolo per tutti gli altri – ridefinisce il tema allora scottante dell’usura; dal cambio tra monete, con commissioni fino al 25%, al commercio internazionale; dalle leggi suntuarie – che regolavano un po’ tutto, dai battesimi, ai funerali e persino l’ostentazione del lusso, non concesso a tutti – all’ascesa della figura del banchiere/mercante il quale, per farsi perdonare dalla Chiesa, evolve a mecenate.
Tutto fino al primo collasso sul finire del 1400, con la predicazione di Girolamo Savonarola e gli annessi & connessi “roghi delle vanità” che mandarono in fumo i simboli della ricchezza e gli oggetti considerati osceni: opere d’arte, strumenti & libri di musica, cosmetici & profumi, nonché le opere considerate immorali di Dante, Petrarca e il Boccaccio, gettati nelle fiamme assieme ai ritratti delle più note meretrici dell’epoca.
Mentre i capolavori dell’élite del Rinascimento – Sandro Botticelli, Beato Angelico, Piero del Pollaiolo, i Della Robbia, Lorenzo di Credi – sintetizzando la storia dell’invenzione del sistema bancario moderno e del conseguente progresso economico, ricostruiscono la vita economica europea dal Medioevo al Rinascimento. Compresa la trasformazione della figura del banchiere/mercante in mecenate il quale, finanziando le imprese delle case regnanti, si può poi permettere di favorire importanti artisti del tempo, come i fiamminghi Jan Provoost e Marinus van Reymerswaele o i tedeschi Hans Memling e Ludwig von Langenmantel, oltre a quelli che questa mostra non espone.
Una ricostruzione del potere della Firenze nell’Europa d’allora, e soprattutto dei meccanismi economici che consentirono ai Signori fiorentini di dominare il mondo degli scambi commerciali, finanziando le guerre non solo di Francia e Inghilterra e dunque il Rinascimento.
Una mostra che enumera le tecniche innovative – come per esempio la lettera di cambio che consentiva di ritirare in sicurezza a Londra il denaro depositato a Firenze – mediante le quali i banchieri crearono immensi patrimoni; illustra la gestione dei rapporti internazionali, chiarendo la nascita del mecenatismo moderno che, da gesto penitenziale, si trasforma in strumento di potere, oggi evoluto nell’ambigua figura dello sponsor dell’arte contemporanea, in cui “la finanza ha preso il posto dell’estetica” – come delucida Pierluigi Pansa.
“Ma a quel tempo, i banchieri commissionavano opere per accreditarsi a un superiore rango sociale, non per giochi speculativi – chiarisce Pansa – l’arte nell’epoca della sua finanziarizzazione, invece, oltre a essere chiave d’accesso all’élite postmoderna è diventata (…) derivato finanziario”.
“Quando l’arte della finanza diventa la finanza d’arte – trancia Mark C. Taylor della Columbia University in Financialization of Art – l’arte non è più solo una merce, ma è moneta di scambio per hedge fund e fondi di private equity, scambiata come qualsiasi altro strumento finanziario».
Donald Thompson, autore del best-seller Lo squalo da 12 milioni di dollari, dopo aver enucleato i meccanismi che regolano la così/detta arte con/temporanea, cita la predizione di Karl Marx: “Le opere d’arte, che rappresentano il più alto livello di produzione spirituale, incontreranno il favore della borghesia (leggi novelli squali) solo se verranno presentate come qualcosa in grado di generare direttamente ricchezza materiale”.
Se quindi i banchieri/mercanti/mecenati d’allora finanziavano la bellezza, l’attuale finanza ha spodestato l’estetica e l’arte, spesso astrusa di oggi, viene scambiata come un prodotto finanziario qualsiasi, assumendo così il valore simbolico del future.
Secondo Mary McCarthy nel suo Le Pietre di Firenze ricorda che “i fiorentini inventarono il Rinascimento, vale a dire il mondo moderno (…) ma il cinquecento fiorentino, che ai suoi albori era apparso il più audace dei secoli, improvvisamente decadde nel provincialismo”.
Tanto è vero che se questa celebre scrittrice americana avesse scritto il suo saggio (1956) oggi, l’avrebbe magari titolato Le buche di Fi/Renzi, in omaggio a un passato che grava sul presente di una città morta deprivata da un attendibile futuro.