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“Migrazioni narranti”, la parola dell’immigrazione africana in Italia

Un saggio di Patrizia Ceola, docente italiana a Dakar, ricostruisce le fasi della letteratura dell'emigrazione dal continente nero al nostro paese. Dai primi libri - per lo più costruiti con giornalisti italiani - alla letteratura scritta nella lingua del paese ospitante, un viaggio nel distacco dalla propria terra e nell'integrazione

di Valeria Gandus

All’inizio scrivevano dell’odissea del viaggio, delle tribolazioni all’arrivo, del dramma della clandestinità. Ma più che scrivere, in realtà spesso raccontavano ad altri, generalmente giornalisti, che poi scrivevano per loro. Più che libri, erano testimonianze. Poi le parole dei migranti hanno preso forma di autentici racconti, romanzi, opere teatrali. Scritti senza più mediazioni e nella lingua del paese ospitante, l’italiano. Un passo obbligato, già compiuto da tanti scrittori accolti da altri Paesi di più antica immigrazione come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna.

Da uno dei gruppi etnici più consistenti, cioè quello degli africani (in Italia sono circa un milione, un quinto degli immigrati) viene il più nutrito numero di opere e scrittori: dai primi anni Novanta ad oggi sono stati pubblicati in Italia 377 testi fra romanzi, racconti, antologie di poesie, autobiografie, pamphlet, saggi e opere teatrali. Sono dati e informazioni che provengono da “Migrazioni narranti” (libreriauniversitaria.it edizioni), un saggio di Patrizia Ceola, docente in materie letterarie e lettrice di Italiano all’Università di Dakar, che analizza e offre una lettura critica della produzione letteraria africana in lingua italiana.

Molti sono gli scrittori raccontati dall’autrice, a cominciare dal senegalese Pap Khouma, autore di uno dei primi libri scritti da un immigrato africano, l’autobiografico Io venditore di elefanti (1990, Garzanti), per arrivare a Cheikh Tidiane Gaye (Il canto del Djali, Ed. dell’Arco), vincitore in Italia di numerosi premi letterari, fra cui quello per la poesia intitolato ad Ada Negri.

Il saggio è stato presentato a dicembre a Dakar, in occasione della Settimana della lingua italiana. Un appuntamento molto interessante per conoscere un aspetto generalmente sconosciuto dell’immigrazione e incontrare alcuni degli scrittori che ne rappresentano, per così dire, l’altra faccia. Ma, soprattutto, un’occasione per cogliere il loro sguardo sull’Italia.

Quello di Ibrahina Diawara, professore di Lingua e letteratura italiana, è uno sguardo innamorato, anche se il richiamo alle tradizioni della madrepatria, il Senegal, è ancora molto forte. Modou, il protagonista del suo romanzo Samal Sa Kaddu (Ed. Keplero), è affascinato e insieme spaventato dal paese che impara a conoscere attraverso Maina, la ragazza italiana che gli insegna cose a lui sconosciute, come la puntualità, o addirittura inaudite come ricevere regali da una donna. E che tenta, ma senza successo, di passargli anche il concetto “occidentale” di libertà: “Per Maina la libertà consiste nel non essere costretta ad agire in un modo o nell’altro, nell’esprimere se stessa, nel poter decidere, scegliere la propria strada”.

Un concetto molto diverso da quello di Modou, per il quale “la libertà è la vittoria su qualsiasi pensiero cattivo e la permanenza nel bene, la vittoria sulle passioni, sui desideri”. Non c’è da stupirsi se, date queste premesse, Modou, sebbene innamorato di Maina e del paese che lo ospita, finirà per acconsentire al matrimonio con Amina, la sposa che i genitori hanno scelto per lui. Ma per ammissione dello stesso autore, il suo personaggio è una sorta di “ultimo dei mohicani”. Il romanzo si conclude infatti con queste parole: “Modou ha risposto all’appello della savana. Ma per quanto tempo ancora questo appello sarà forte e irresistibile?”.

Per tanti immigrati il richiamo è ormai poco più che un flebile suono: il paese dove intendono continuare a vivere è l’Italia. Ma non per questo rinunciano alla propria identità. Come? La parola chiave è conoscenza. Reciproca. “Chi non ti conosce ti chiama ‘Ehi!??’, chi ti conosce ti chiama con il tuo nome” dice Moudou Gueye, in Italia da 15 anni, accento milanesissimo, scrittore, educatore, regista, musicista. Con la sua compagnia “Le maschere nere” Gueye, che ha in programma anche una collaborazione con il teatro Filodrammatici di Milano, persegue l’obiettivo di far chiamare tutti gli immigrati con il loro nome, facendone conoscere la storia e le tradizioni.

“Faccio spettacoli che fanno piangere, perché raccontano la storia vera di chi arriva su una di quelle barche stracolme che vedete in televisione. Ma racconto anche che c’è fra noi chi viene in Italia per libera scelta, per studiare, per lavorare, senza essere spinto necessariamente dalla fame”.

Il teatro è il mezzo scelto anche da un altro autore, Mandiaye Ndiaye, per coltivare la memoria, perché, dice “il mondo occidentale, ma anche il nostro, la stanno negando”. Conoscenza è soprattutto scambio, come quello fra lo stesso Ndiaye e uno dei maggiori scrittori italiani contemporanei, Gianni Celati. Con i racconti sul villaggio in cui è nato, il senegalese ha ispirato il suo Passare la vita a Diol Kadd (Feltrinelli), corredato da un documentario sulla vita nel villaggio, presentato dai due scrittori alla Settimana della lingua italiana di Dakar.

Alla manifestazione erano presenti anche scrittori italiani che scrivono dell’Africa, come Vincenzo M. Oreggia (Bach tra gli elefanti, storie e ritratti di senegalesi) e Francesca Caminoli, autrice di La guerra di Boubacar, il romanzo sulla liberazione dell’isola d’Elba da parte di un battaglione di “tirailleur” senegalesi durante la seconda guerra mondiale.

Insieme agli scrittori, un drappello di artisti senegalesi che hanno esposto le loro opere dedicate all’Italia, o meglio alla loro idea dell’Italia (irresistibile una Monna Lisa nera) nella galleria di Mauro Petroni, artista-ceramista italiano che vive da 26 anni a Dakar. Perché c’è anche chi ha fatto, con soddisfazione, il percorso inverso.

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