Chi ha visto Hunger (potente affresco degli ultimi giorni di Bobby Sands dell’IRA), crediamo, ci rimarrà male di questa opera seconda. Steve McQueen torna a dirigere Michael Fassbender in Shame, ed entrambi si confermano all’altezza: il regista londinese (solo omonimia con il celebre attore) sa girare, sa stare attaccato ai corpi e esplorare il milieu, mentre Fassbender, qui alla seconda prova in concorso a Venezia 68 dopo il Carl Gustav Jung di Cronenberg, sa recitare, ha sex-appeal e poliedricità.
Il problema è un altro: queste doti sono al servizio di una storia furba, ricattatoria, moralistica e, in definitiva, reazionaria. Vediamo perché. Fassbender -prossimamente farà tris con McQueen in Twelve Years a Slave – è Brandon, bello, bravo (nel lavoro), edonista e nichilista. Soprattutto, erotomane: ogni sera una donna diversa (prezzolata o meno, poco importa), un po’ di chat e video porno (di cui intasa pure il pc in ufficio), masturbazioni a tutte le ore.
Ma Brandon, lo sentiamo, merita di più, perché Brandon è bello, vero e quindi come può non essere buono? Lo diceva pure Aristotele, no? Comunque, per aspera ad astra, e a proposito capita la sorellina Sissy (Carey Mulligan), che piomba nel suo appartamento newyorkese. Quel loculo non sarà più amoenus: Sissy è un po’ fuori di testa, un po’ cantante (New York, New York versione nenia, e Brandon piange: si può capirlo) e, appunto, un po’ sorella. Sissy non sta bene, ma capisce che Brandon sta peggio. Perché Brandon possa capitolare, Sissy deve fare come lui, portandosi a letto il capo del fratellone: Brandon accusa il colpo, e si scopre moralista.
Che sia, dunque, arrivato il momento di cambiare vita, cercare una relazione seria, scambiare la solita sinfonia di sessualità meccanica con una nuova partitura morale?
Complice una collega, Brandon ci prova: primo appuntamento senza sesso, bacetto in ufficio l’indomani, quanto basta per prepararsi al grande passo. Fare l’amore, ma incredibilmente – manco la coca aiuta – qualcosa s’inceppa: Brandon non ce la fa, ma che strano… Ecco che la definitiva “discesa agli inferi” può iniziare: prima tappa un bar, dove si spinge a tal punto nelle avances che le prende, poi una sortita omosex, infine, un rapporto a tre con due donne. Tanti delitti possono rimanere senza castigo: ovviamente no. E ovviamente ci pensa la sorellina …
E’ Shame, e la vergogna in effetti c’è: ci sono le “vergogne” di Fassbender e con lui tanti altri corpi esibiti e mandati al macello. Non a caso, la chiave, l’ideologia di fondo è pornografica. Come nel porno, al pubblico è servita una castrazione dei sensi camuffata da libertà sessuale, una reazione scambiata per rivoluzione.
In questo caso, anche grazie alla drammaturgia del romanzo di (de)formazione, ovvero ad abili strumenti di scrittura (sceneggiatura di Steve McQueen e Abi Morgan): dalla furbizia al ricatto, passando per l’immedesimazione. Perché Brandon è bello, Brandon ci sa fare e ora Brandon soffre pure. Rabbioso come un cane, ma sempre cool: dunque, come non sentirsi lui, nella gioia e nel dolore? Non vi basta? E allora rimane la sua ultima parola: “Dio”. Capito l’approdo, capita la furbizia?