Non è un caso piccolo quello che successo al Tg1. Non c’è più Minzolini, ma niente sembra cambiato. Ieri mi è capitato per caso di guardare il tg della rete ammiraglia. Parlavano di Cosentino (oggi il primo via libera all’arresto), l’ex sottosegretario, ras del Pdl in Campania, per il quale la Procura di Napoli ha chiesto la custodia cautelare per i suoi legami con la camorra. Il gip Egle Pilla lo definisce “il referente nazionale delle cosche casalesi“.
Ebbene, nel servizio del Tg1, in oltre un minuto, non si sente mai la parola “camorra”. Non la dice il giornalista che lancia il servizio, non lo annuncia il titolo che accompagna le immagini, non è scritta nella didascalia del video sul sito del Tg1 e, naturalmente, non ne fa menzione l’autore del servizio Enrico Castelli.
Perchè non si può dire “camorra”? Cos’è? Una parolaccia? Una bestemmia? Una espressione indelicata? Chi ha guardato ieri il tg più importante della televisione italiana, non ha ricevuto nessuna informazione sui reati di cui è imputato Cosentino: viene proposto solo un servizio politico sulle posizione tattiche della Lega. Di quale sia la realtà nelle terre di camorra grazie alla commistione della politica, di quali siano gli scempi, gli affari, gli orrori, niente, niente di niente: Cosentino, volendo, potrebbe essere indagato anche per una lite di condominio.
Un giornalista, come chiunque, può sbagliare. Ma il pudore nei confronti del potere, non può essere un errore: ci vuole fantasia per farlo, ci vuole mala fede, faccia tosta; è molto più complicato arrampicarsi sugli specchi, omettere, usare perifrasi che dire le cose come stanno, semplicemente: soggetto, predicato e complemento.
Per tantissimi giornalisti, a loro rischio e pericolo, denunciare tutto ciò che riguarda le mafie è un punto di orgoglio, un servizio civile, oltre che professionale, fatto al Paese. Questo non vale al Tg1. Il problema, no, non era solo Minzolini.