La fuga dell'azienda storica di Faenza ha lasciato 300 operaie a casa. L'analisi di Marco Cobianchi, autore del libro Mani bucate (Chiarelettere): "Il trasferimento è frutto di incentivi a pioggia del governo di Belgrado che risanano le aziende con minime difficoltà"
Guarda caso tra quei paesi c’è proprio la Serbia, che da anni sta ormai accogliendo gli imprenditori stranieri con una pioggia di incentivi economici. A spiegarlo è Marco Cobianchi, giornalista e autore del libro “Mani bucate“. “L’Omsa accenna senza entrare nel dettaglio a problemi economici, ma se aveva dei guai li ha risolti grazie ai sussidi pubblici serbi. A questo punto – spiega Cobianchi – la concorrenza non è tra libere imprese ma tra Stati nazionali che si danno battaglia a colpi di incentivi a pioggia e sussidi. Il motivo – prosegue sempre Cobianchi – è lo stesso che ha convinto la Fiat, Generali, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Benetton e Fantoni a trasferirsi: i contributi che il governo serbo assicura alle imprese sono stratosferici e mettono fuori gioco ogni paese europeo. Ad esempio ci sono gli sgravi fiscali tra i 5000 e i 10.000 euro annui per ogni posto di lavoro creato nel paese”. Considerando lo stipendio medio di un operaio serbo, tra i 5 e i 6mila euro annui, il costo della manodopera per i primi 12 mesi tende allo zero. Ma non è finita, tra le tante agevolazioni c’è anche l’esenzione per 10 anni dall’imposta sugli utili societari per investimenti superiori ai 7 milioni di euro o che impieghino almeno 100 nuovi dipendenti.
Se la concorrenza serba lascia poca speranza, la Regione Emilia Romagna sembra fare poco per fermare le imprese che vanno all’estero. A ottobre 2010, più di un anno fa ormai, i consiglieri regionali della Federazione della Sinistra, Roberto Sconciaforni e Monica Donini, annunciavano un progetto di legge per punire le delocalizzazioni attraverso la revoca dei contributi anche retroattiva fino a 10 anni. La legge, che come obiettivo aveva il “porre in essere azioni di contrasto del fenomeno della delocalizzazione industriale e ad adottare misure di tutela dei livelli occupazionali”, prevedeva all’articolo 7 la revoca di tutti i contributi erogati attraverso la Regione in caso di “delocalizzazione degli impianti produttivi o anche di parte della produzione all’estero o in un’altra regione d’Italia, se da questa consegue la riduzione del personale per il quale l’impresa ha ricevuto il contributo”. Non solo, chi si fosse impegnato a mantenere i livelli occupazione avrebbe potuto beneficiare di aiuti regionali supplementari. Insomma un sistema di incentivi per spingere le aziende a rimanere. Eppure la proposta di legge sembra essersi persa nella nebbia, e a 14 mesi di distanza non si sa ancora quando sarà discussa e poi votata. “L’assessore Muzzarelli ha detto di volerla appoggiare”, ha spiegato il consigliere regionale Sconciaforni. L’ufficio stampa dell’assessore alle attività produttive invece fa sapere che i progetti sono altri, e prevedono per il futuro disincentivi per le aziende che acquistano un marchio emiliano-romagnolo e poi puntano al trasferimento fuori regione, come nel caso Bruno Magli. Insomma, per il momento contro le delocalizzazioni all’estero poco o nulla di concreto.
E mentre la giunta discute si moltiplicano gli incontri e i seminari sulla cosiddetta “internazionalizzazione” verso la Serbia. Riunioni spesso sponsorizzate dalla stessa Regione Emilia Romagna attraverso il suo Sportello “Sprint”, dove si spiega come e perché è conveniente fare business in Serbia. Ci sono poi bandi regionali che aiutano le piccole e medie imprese a unirsi e ad “aggredire i mercati esteri“. Alle volte però è molto più conveniente impiantare direttamente all’estero il proprio capannone, e poi magari chiudere quello italiano. E questo, come nel caso Omsa, succede proprio in Serbia dove gli investimenti diretti godono fino al 25% di finanziamenti governativi a fondo perduto. Senza contare il più volte citato accordo di libero scambio tra la Serbia e il trio Russia-Bielorussia-Kazakhstan (in tutto 170 milioni di persone) che permette di esportare verso quei mercati senza dazi e con solo una striminzita tassa amministrativa doganale dell’1%