Il 22 Aprile 1993 Stephen Lawrence stava aspettando l’autobus, quando fu attaccato da un gruppo di ragazzi, ferito con un coltello e lasciato morire a terra. Stephen fu colpito perché nero, da un gruppo di giovani fanatici bianchi: unico motivo, il razzismo.
Il 4 gennaio del 2012 due dei suoi assassini sono stati condannati a 14 anni, chiudendo una pagina terribile della storia britannica: un fatto di portata enorme per la coscienza collettiva di questo paese.
Dietro i 19 anni necessari per arrivare ad un verdetto c’è la responsabilità drammatica della London Metropolitan Police, colpevole di essere stata “institutionally racist”, come la definì l’inchiesta sul caso Lawrence, condotta nel 1998 da Sir William Macpherson.
Finalmente, (parziale) giustizia è stata fatta, anche grazie al lavoro incessante della mamma di Stephen. Una visita allo Stephen Lawrence Charitable Trust, che offre borse di studio e training agli studenti, e che con coraggio tiene viva la memoria di un ragazzo vittima di un attacco razzista, offre la vera dimensione di cosa significhi tutto questo per la Gran Bretagna: un nuovo paradigma per capire il razzismo, e un nuovo vocabolario.
Dire che il razzismo sia stato sconfitto darebbe un’impressione troppo edulcorata. Stephen stava studiando per diventare architetto, e non si può comprendere appieno il vero significato di questo caso se non andando oltre il momento della sua morte, chiedendosi che vita avrebbe avuto. Quale sarebbe stato il suo futuro di giovane uomo nero in Gran Bretagna? Sarebbe diventato un archittetto di successo? Sarebbe stato anche lui vittima di uno “stop and search”, il potere delle forze dell’ordine di fermare e perquisire chiunque per strada, potere applicato in maniera spropositata sulle persone di pelle scura?
Per questi motivi il caso Lawrence è di importanza straordinaria. E la sua memoria si misurerà attraverso la capacità di questo paese di interrogarsi proprio sulle questioni che vanno oltre la sua morte, a partire dal ritardo della giustizia. Sradicare il razzismo è una priorità inderogabile di ogni società. In questo, un ruolo principale compete alle forze dell’ordine, e alla loro capacità di essere accountable, responsabili di quello che fanno.
E qui vengo al secondo tema. Ho sempre pensato che la trasparenza e il buon operato della polizia siano un collante fondamentale della società. Per questo motivo ho scelto la strada dei diritti umani: lavoro nell’ambito della sicurezza, e mi occupo del tema dell’uso ragionevole della forza.
Quando le forze dell’ordine mancano di rispetto sia alle vittime che ai colpevoli del crimine, credo la democrazia sia in bilico. Non è una falla del sistema democratico italiano la vasta lacuna di accountability per quanto avvenne a Genova, ad esempio, dove si è pagato troppo poco per aver consentito la sospensione di ogni legalità democratica? O la poca cura con cui si investigano i casi di morte nelle carceri, luoghi deputati al recupero e al reinserimento in società di chi ha sbagliato?
Sia la forza della giustizia che l’autorevolezza delle forze dell’ordine stanno nel rispetto, nella trasparenza e nella capacità di operare nella pura legalità.
Per questo la coscienza collettiva della Gran Bretagna è profondamente scossa: perché da chi è chiamato a gestire l’ordine ci si aspetta il comportamento migliore, guidato dall’etica della responsabilità e del rispetto. La London Metropolitan Police di strada ne ha fatta tanta; anche se, nell’applicare il concetto di uguaglianza, equality, non ha fatto ancora abbastanza per garantire che le minoranze etniche siano presenti a tutti i livelli della gerarchia. Una società multiculturale non può non avere una polizia con vertici altrettanto multiculturali, capaci di creare al proprio interno le condizioni per un operato davvero democratico.
Accountability, trasparenza, pari opportunità ed uguaglianza nell’operato delle forze dell’ordine sono la leva fondamentale per una società più equa, e più sicura, per tutti.