Dopo Mora, Tanzi. Due eccellenti esponenti di quel mondo dorato, che sembra lontano mille miglia dall’ordinaria miseria umana esaltata dall’esperienza carceraria, non ce la fanno più. I commenti, tra la commiserazione e la pietas si sprecano. Stanno morendo immiseriti dalla loro condizione e da uno status di privilegiato che si è dissolto nell’aria.
Il dibattito, dall’altra parte e in senso opposto, è altrettanto stucchevole. Devono morire in carcere per un concetto di espiazione, che al di là dei reati commessi, mira a far pagare ai suddetti l’arroganza e la boria di una vita vissuta con lo sguardo rivolto al basso.
I garantisti ad intermittenza che si preoccupano solo dei colletti bianchi e i garantisti tout court che si occupano di tutti i carcerati si incrociano in un ideale spazio di paradosso in cui i primi, indifferenti alla sorte della generalità dei detenuti, denunciano, a favore degli amici galeotti, distorsioni che dovrebbero valere per tutti. I secondi al contrario, sempre pronti a condannare le condizioni orribili del carcere, godono quando queste condizioni sono applicate al nemico, ricco e potente e come tale disgustoso. Uno scambio di ruolo, come certi giochi di simulazione.
La logica va a farsi benedire e la guerra per bande fa perdere di vista il fatto che un carcere come quello italiano non ha motivo di esistere, per i poveri e per i ricchi. Un carcere che annienta, distrugge, annichilisce. Una idea, quella del carcere, disgustosa al solo pensiero. Il carcere dovrebbe valere solo per persone realmente pericolose per gli altri. Una tipologia di criminali molto meno diffusa di quanto si è soliti pensare. Agli altri, a tutti coloro che violano la legge penale sarebbe sufficiente un duro, durissimo lavoro sociale con quelle categorie di persone che massimamente, nelle loro condotte, hanno dimostrato di sapere ben disprezzare. Un disprezzo che finisca nel ritorcersi contro loro, un riverbero della loro alterigia, della loro superbia e della loro povertà concettuale.