Va bene che Mario Monti è abituato alle missioni difficili, ma adesso le cose si stanno complicando un po’ troppo. Oggi arriva a Berlino per incontrare Angela Merkel e parlare a quel pubblico tedesco cui sente di dover rispondere almeno quanto a quello italiano. Lo stile e i toni saranno quelli del “genero ideale”, come lo ha battezzato la stampa tedesca, ma difficilmente Monti avrebbe potuto presentarsi più stropicciato a questo incontro. Scopo: ottenere che le regole del fiscal compact, le nuove regole di bilancio europee e le sanzioni per chi sgarra, siano il più clemente possibile con l’Italia. Ovvero evitare l’applicazione letterale della regola che impone di ridurre di un ventesimo all’anno la parte di debito pubblico che eccede la soglia del 60 per cento del Pil (roba che, avendo la crescita sotto zero, significa manovre da 40-50 miliardi ogni anno). Essendo ottimista ma pragmatico, però, Monti sta già lavorando al piano B, cercando la sponda di David Cameron. Il premier inglese è l’unico tra i 27 membri dell’Ue che ha messo il veto sull’Unione fiscale, Monti spera di recuperarlo e ottenere in cambio vantaggi per l’Italia. Ma questa ambiziosa diplomazia finanziaria è sempre più difficile da gestire.
Ci sono le banche, ieri Unicredit ha recuperato un po’ in Borsa dopo il baratro dei giorni scorsi, ma il problema dell’aumento di capitale da 7, 5 miliardi è tutt’altro che risolto. E già il Financial Times suggerisce che da questa operazione dipenda la credibilità del sistema bancario europeo. Poi c’è l’agenzia di rating Fitch, la più piccola delle tre e la più agguerrita verso l’Italia. Ieri ha minacciato un nuovo declassamento del debito pubblico italiano a fine mese, giusto in coincidenza di quel vertice europeo del 30 gennaio in cui si decide sul fiscal compact. I mercati probabilmente ne stanno già anticipando l’effetto, con lo spread che resta stabile sopra i 500 punti, ieri ha chiuso a 524. Ma sarebbe il primo downgrade di Monti, il segno tangibile che la cura drastica del professore sta rafforzando le basi della finanza pubblica italiana ma non può fare miracoli. I problemi economici si saldano con quelli politici. Questione di giorni e il governo dovrà affrontare la tripla sfida di liberalizzazioni, riforma del lavoro e dell’assistenza (tagliare agevolazioni fiscali per evitare che scatti l’aumento dell’Iva dal 21 al 23). Sempre che la recessione non faccia saltare i saldi di bilancio rendendo necessaria qualche altra misura straordinaria. I partiti per ora sembrano in letargo. Perfino la caduta del sottosegretario Carlo Malinconico, dimissionato ieri dal premier, si è consumata in un vuoto di dichiarazioni e reazioni. Malinconico, stando a quello che dicono i politici di maggioranza, era arrivato lì senza sponsor, forte solo della sua carriera da grand commis. Ma c’è anche chi lo considerava uno dei tasselli dell’asse Letta-Letta (Gianni ed Enrico), uno di quei nomi trasversali garanti di una certa compattezza governativa.
“C’è una bella differenza con Berlusconi, quello si teneva al governo anche Al Capone”, sbotta un sottosegretario, alludendo maliziosamente all’altro protagonista di giornata, Nicola Cosentino. Ma il tentativo di rivendicare con l’epurazione una diversità etica difficilmente renderà la vita più semplice a Monti. Il Pdl – lo ha ribadito ieri il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto – non rinuncia a difendere l’ex sottosegretario Nicola Cosentino: ieri la giunta per le autorizzazioni ha votato per il suo arresto (cioè non ha riscontrato le premesse di una persecuzione giudiziaria). Ma il voto decisivo è quello in aula giovedì, subito dopo il discorso di Monti che riferirà gli esiti del vertice tedesco. Forse il Pdl non riuscirà a salvare Cosentino, ma di certo non lo abbandonerà senza chiedere (a Monti) qualche risarcimento.