La pellicola di Gianfranco Rosi è una lunga intervista a un killer messicano di Ciudad Juarez affiliato al cartello della droga. Ha ucciso più di 500 persone e sulla sua testa pende una taglia da 250mila dollari
Arruolato dai narcos giovanissimo, diventa comandante della polizia statale di Chihuahua dove riceve l’addestramento necessario per la sua professione di assassino a pagamento, dimostrando i legami fra la criminalità e alcuni settori dello Stato.
Oggi, il sicario, dopo un’“illuminazione religiosa”che dopo varie vicissitudini lo convince a cambiare vita, cerca la sua redenzione, libero e impunito. Il tutto è sottolineato dalla maniacale grafomania del protagonista che riversa su un quaderno i concetti chiave del suo racconto.
Rosi è in contatto con Charles Bowden, giornalista freelance che da oltre 20 anni si occupa di criminalità al confine tra Messico e States. Nel 2009 per Harper’s Magazine il cronista scrive un articolo sugli avvenimenti di violenza a Ciudad Juarez, la città più violenta del mondo (5316 morti da gennaio 2009 a febbraio 2011) e, in particolare, intervista un assassino su cui pende una taglia da 250.000 dollari. Il regista rimane scosso dal pezzo e chiede a Bowden di incontrare il killer. L’uomo si trova in gravi condizioni economiche e per realizzare la video-intervista chiede di essere pagato. “Ci ha detto – racconta Rosi – ‘Io di solito guadagno 4000 dollari per uccidere (to shoot) un individuo, vi chiedo 4000 dollari perché voi mi filmiate (to shoot me!)’”.
Il film-maker si presenta il giorno dell’appuntamento con il denaro in una valigetta prestatigli dal suo montatore Jacopo Quadri. Cosi nasce “El sicario, Room 164”. Anche la location scelta per le riprese è importante: si tratta della stessa stanza d’albergo in cui il criminale ha eseguito diversi sequestri, molti dei quali conclusi con un omicidio.
Il regista è animato dalla volontà di indagare la natura umana, ma anche di restituircela nella sua veridicità astenendosi dal giudizio e lo fa con pochi elementi. Egli stesso dichiara che il suo è stato un lavoro di sottrazione: doveva essere un documentario su 4 storie messicane, “ma alla fine la potenza del racconto di quest’uomo a volto coperto ha offuscato tutte le altre”.
Lo spettatore riesce solo a immaginare ciò che viene raccontato. Nel film il protagonista (per giunta con un cappuccio che gli nasconde il viso) parla di strategie criminali, sequestri e omicidi illustrando il tutto con disegni e parole chiave sul suo quaderno. E’ il trionfo del non visto: un racconto in cui non si vede chi e nemmeno di cosa parla. Ciò nonostante si riesce a immaginare tutto. Bastano le parole per descrivere l’orrore: “Sotto un gigantesco recipiente con l’acqua bollente, li (le vittime, ndr) calavamo a poco a poco con una corda e, quando perdevano i sensi, li tiravamo su. Gli arti che si erano cotti li tagliavamo via”.
E allora ci si chiede che cosa sia vero e quanto del racconto dell’assassino, dalle doti oratorie incredibili, sia il frutto dell’esaltazione del suo ego. Ma Rosi fa un patto con lo spettatore, propone una storia come autentica e chiede al pubblico in sala di credergli.
di Danilo Monte