Dopo gli incontri con Cgil, Cisl, Uil e Ugl, nel corso della trattativa per la riforma del mercato del lavoro, la ministra Elsa Fornero ha incontrato ieri la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Per ora si susseguono una serie di voci, molto fumo attorno all’articolo 18, ieri di nuovo al centro degli attacchi di Marcegaglia, anche se Confindustria sembra non aver ancora chiaro se modificarlo sia davvero la sua priorità.
Per quel che riguarda il contrasto alla precarietà, le proposte di esponenti politici ed economisti (Ichino, Damiano, Boeri-Garibaldi) ispirano Fornero nella ricerca di una sintesi che non scontenti troppo le parti. Si parla di contratto unico, contratto graduale, prevalente. Non entra invece nel dibattito quanto le tante associazioni dei precari hanno pensato e scritto negli ultimi anni sulle precarietà, né le posizioni assunte rispetto alle proposte che oggi si contendono la scena. Innanzitutto rispetto all’idea che il contratto unico possa rappresentare una soluzione a una precarietà che, si è detto tante volte, è lavorativa quanto di vita.
Forse chi precario lo è per davvero ha un occhio più lucido sulle mille facce di una condizione che ricondurre alla sola ricerca di un contratto a tempo indeterminato non coglie.
Chi lavora in maniera continuativa presso un’organizzazione aspira sicuramente ad essere stabilizzato. E certamente c’è da intervenire su lavori regolari camuffati da collaborazioni occasionali, prestazioni d’opera, partite iva e contratti a progetto reiterati. Ma nessuna forma di contratto unico, comunque lo si declini, offre risposte a quanti lavorano per più committenti e sono discontinui, per natura della professione o per scelta di indipendenza. Se l’idea è quella di riformare lavoro e welfare in direzione di una maggiore equità, la divisione garantiti – non garantiti deve saltare per tutti.
Traduttori, grafici, programmatori, giornalisti, ricercatori e consulenti di diversa natura, migliaia di non solo giovani a cui il progetto di stabilizzazione non è applicabile e per cui Stato Sociale è il nome di qualcosa che prende e non dà (ad esempio perché si è esclusi dalle indennità di disoccupazione e di malattia) e forse non darà mai (per insufficienza e discontinuità dei contributi versati). La partita si sposta allora dal tipo di contratto all’accesso a diritti sociali, dalla casa a una vecchiaia dignitosa, il cui venir meno non manca di produrre tragedie.
Il comitato Il Nostro tempo è adesso ha lanciato per questo una campagna. Dieci proposte che sintetizzano alcuni dei temi e delle idee discusse in anni di confronto e mobilitazioni da tante formazioni dell’universo precario. E un invito a governo, politica, parti sociali e imprese: basta con la categoria debole e il racconto delle sfiga, la retorica del “bisogna pensare ai giovani” e il parlarci sopra. Abbiamo delle proposte, ne parliamo?