“Gli immigrati non rubano posti di lavoro ai cittadini britannici”. È il risultato di uno studio condotto dalla Migration advisory committee (Mac) del governo di Londra reso pubblico in questi giorni. Cade in questo modo uno dei principali miti degli anti immigrazione, ovvero quello dello straniero che porta via il lavoro al cittadino nativo.

Per ogni 100 extracomunitari che hanno oltrepassato la Manica negli ultimi 15 anni, 23 “Brits” (britannici, ndr) hanno perso il proprio posto di lavoro, ammette la commissione, ma si tratta di un effetto del tutto momentaneo che viene riassorbito dal mercato del lavoro, in questo modo più dinamico, entro al massimo cinque anni. Tradotto in cifre, nel caso del Regno Unito, questo vuol dire che dopo l’arrivo di 2,1 milioni di immigrati arrivati dal 1995, circa 160mila anglosassoni si sono trovati disoccupati ma solo in determinati lavori, per lo più svolti part time. Inoltre, sempre secondo la commissione, il condizionale è d’obbligo, in quanto la connessione tra i due fenomeni è tutta ancora da dimostrare.

Sul legame tra immigrazione e disoccupazione locale, infatti, c’è molta confusione in quanto alcuni dati sembrerebbero in contraddizione tra loro. Tuttavia David Metcalf, presidente della commissione Mac, si sente in grado di affermare che “l’immigrazione da altri Paesi Ue, come ad esempio la Polonia, ha un effetto scarso o nullo sull’occupazione locale”, sfatando in questo modo una delle maggiori credenze popolari che vede Londra, come altre capitali europee, additare proprio l’est Europa come causa di disoccupazione tra i cittadini britannici. Inoltre, sempre secondo lo studio Mac, l’immigrazione non ha alcun effetto sulle retribuzioni medie, e la spinta al ribasso per i salari più bassi è tutta da dimostrare.

D’altronde che “lo straniero” facesse bene anche all’economia europea è opinione condivisa largamente a Bruxelles. Per questo il 13 dicembre scorso l’Ue ha adottato una nuova legislazione sul permesso unico di soggiorno per i lavoratori extracomunitari, una norma che semplifica le procedure burocratiche in tutti i Paesi Ue e che garantisce un set di diritti comuni per tutti. “Si tratta di un passo importante per facilitare la vita dei lavoratori stranieri legali che contribuiscono alla ricchezza sociale e culturale della nostra società e a rafforzare la nostra economia”, aveva detto Cecilia Malmström, Commissaria Ue agli Affari sociali, all’indomani del voto favorevole dell’Europarlamento.

Tuttavia, la connessione indiretta tra immigrazione e disoccupazione, costituisce un concetto non facile da digerire, specie in tempi di crisi. I lavoratori dell’est Europa, ad esempio, soprattutto polacchi, rumeni e bulgari, continuano a essere osteggiati da buona parte dei Paesi europei più benestanti. Negli ultimi mesi sono stati molti i tentativi di alzare le barriere da parte di Olanda, Danimarca e Regno Unito. A Copenaghen il vento è cambiato solamente con il cambio di governo oggi sotto la guida della socialista Helle Thorning Schmidt. Nello stesso Regno Unito, nonostante il rapporto della commissione Mac, Damian Green, ministro all’Immigrazione conservatore, ha detto che lo studio dimostrava quanto fosse importante tenere basso il numero di visti concessi agli extracomunitari.

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