Ha i tratti del protagonista della novella Tutto per bene che Pirandello pubblicò nel 1906, il Martino Lori portato in scena da Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma (fino al 10 febbraio e poi in tournée). L’interprete, che è anche il regista di questo spettacolo, ha fuso il racconto con la pièce omonima che lo stesso Pirandello scrisse nel 1920 per l’attore Ruggero Ruggeri, forse accogliendo la teoria di molti critici circa la superiorità del testo narrativo su quello teatrale. Il risultato è evidente in modo particolare nel primo atto, in cui il personaggio principale sembra ricalcato dalle pagine del racconto, nel suo procedere a testa bassa e nell’atteggiamento dimesso di chi è stato ampiamente mortificato. Non è un caso che lo spettacolo sembri esplodere dopo l’intervallo, quando la compressione dei gesti e i toni di voce smorzati di Martino Lori lasciano il posto ad un’interpretazione da grande mattatore.

Anzi, la difficoltà e per certi aspetti lentezza del primo atto risulta preparatoria rispetto alla forte impennata emotiva del secondo, che tiene lo spettatore incollato alla poltrona anche nell’atto conclusivo. A vedere questa messa in scena si ha la conferma che abbia ragione Lavia, quando dice che Pirandello è uno dei più grandi autori di teatro di sempre, che sta accanto ai tragici greci, a Shakespeare, a Molière e a Brecht senza sfigurare. Ed è evidente nella capacità di questa drammaturgia di rimanere attuale, reggendo agli anni e ai cambiamenti epocali. È passato quasi un secolo dalla prima rappresentazione al Quirino di questo testo, eppure il pubblico continua a seguire con partecipazione la vicenda di un uomo che scopre a distanza di anni il tradimento della moglie, che è morta lasciandogli una figlia, Palma (ben interpretata da Lucia Lavia, figlia del regista).

Martino Lori ha venerato per sedici anni la tomba di Silvia, accettando con remissione le intemperanze della giovane figlia e il suo attaccamento al senatore Salvo Manfroni (Gianni De Lellis). Improvvisamente però, durante quella che il regista ha definito in conferenza stampa una «agnizione rovesciata», il protagonista si rende conto dell’inganno su cui ha costruito tutta la sua vita. In una scena buia, illuminata solo dai lampi che cadono fuori dalla finestra, lo spettatore scorge nell’abbraccio tra il padre e la presunta figlia la presa di coscienza di Martino Lori, e la sua consapevolezza di aver partecipato senza saperlo «ad una grande messinscena in una società di pupazzi». Il personaggio interpretato da Lavia propone il tema pirandelliano del mondo come teatro, in cui la vita è una «pagliacciata», secondo la teoria arcinota delle maschere, ma anche, e questo è a mio parere più interessante, la questione di chi, avendo inconsapevolmente recitato una parte per tutta la vita è costretto dalla convenienza sociale a rimanere all’interno di quel ruolo. L’idea è sottolineata anche dal titolo, che allude all’apparenza perbenista del comportamento, cui Martino Lori si adegua. E questo adeguamento è claustrofobico come la scenografia di Alessandro Camera, che gioca sul buio e sulla fissità di quella che nel programma di sala chiama «una scatola asfittica».

Nel proscenio c’è l’imponente catafalco su cui Martino si reca tutti i giorni a onorare la «moglie puttana», l’unica ad averlo amato veramente per nascondere i suoi peccati. È una società in cui tutto va al contrario di come dovrebbe, perché il mondo è capovolto, come dimostra il lento camminare all’indietro dei personaggi, nei momenti cruciali del dramma.

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