Scusate, sarò impopolare, ma io sto con i tassisti. So bene che si tratta di una categoria chiusa, probabilmente corporativa, a volte – ma non spesso – poco gradevole nei riguardi dei clienti, e tutto quello che vogliamo, però l’idea che la salvezza dell’Italia passi per la fine delle loro prerogative non riesco proprio a digerirla. Si potrebbe citare lo studio della Cgia di Mestre secondo cui le “liberalizzazioni in Italia sono state un flop” per argomentare meglio questa posizione. L’associazione degli artigiani, citata spesso come un’autorità quando si tratta di questioni fiscali, ha documentato l’aumento di quasi tutte le tariffe dei servizi liberalizzati negli ultimi decenni a eccezione di medicinali e tariffe telefoniche. Per il resto gli aumenti sono stati consistenti: si va dal più 184 per cento delle assicurazioni dei mezzi di trasporto (dal 1994 a oggi) contro un incremento dell’inflazione del 43,3 per cento, al più 109 per cento dei servizi bancari/finanziari. Per i trasporti ferroviari i prezzi sono invece aumentati, tra il 2000 e il 2011, “solo” del 53,2 per cento contro un aumento dell’inflazione del 27,1. La Cgia calcola in 110 miliardi di euro il costo delle liberalizzazioni “all’italiana” per le famiglie italiane.
Si potrebbe, ancora, citare anche la posizione del sindaco De Magistris, sceso in campo a fianco dei tassisti. “La liberalizzazione non è una priorità per il paese” ha detto ingraziandosi il consenso dei tassisti napoletani. Politica da sindaco, certamente, ma anche la sottolineatura che non si può puntare a un simbolo come questo per giustificare la propria azione di governo.
Le liberalizzazioni sono divenute un dogma dietro il quale si nascondono importanti interessi privati. Nel caso dei tassisti si fa balenare – ma nei confronti di chi? – una diminuzione dei prezzi come effetto immediato di un allargamento delle licenze. Rimane difficile capire cosa possa cambiare per studenti, precari, lavoratori semplici se il prezzo di una corsa passa da 20 a 15 euro, sempre alto sarebbe. Stiamo parlando di un servizio comunque limitato a una fetta ridotta di società e stiamo parlando di un’ipotesi di sviluppo che passa attraverso l’espansione di grandi gruppi privati in grado di tenere a servizio molti tassisti, lavoratori dipendenti, magari costretti a lavori a chiamata, turni massacranti e tutta la gamma del moderno lavoro precario.
Davvero è questa la risposta al declassamento operato da Standard and Poor’s? Davvero è questa la priorità delle priorità? O non si vuole invece creare un diversivo per nascondere le politiche durissime che il governo Monti sta portando avanti e dovrà ancora portare? Del resto, non è indicativa la scelta di nascondere, proprio nel decreto liberalizzazioni, la modifica surrettizia dell’articolo 18?
Insomma, a me questa vicenda non convince. Gradirei vedere all’opera un governo che spezzasse il lavoro precario, tassasse davvero i grandi patrimoni, le rendite, magari la Chiesa, smettesse di accumulare conflitti di interesse e minacciasse di dimettersi se viene salvato un parlamentare in odor di Camorra. Che si mettesse a discutere con i Comuni e le Regioni di sistemi di trasporto pubblico efficaci (avete presente Trenitalia?), anche per rilanciare l’economia e l’occupazione (perché non si rileva l’Iribus chiusa dalla Fiat per costruire un bel po’ di autobus?). E che poi, magari, si occupasse anche dei tassisti. Ma solo dopo.