A un anno dalla rivoluzione, non si sa dove sia il dittatore, ma il suo avvocato ha fatto sapere che chiederà al Consiglio dei diritti umani dell'Onu la restituzione di ciò che "ingiustamente" è stato tolto al suo cliente
A sentire l’avvocato, Ben Alì intende appellarsi niente di meno che che al Consiglio dei diritti umani dell’Onu per chiedere la restituzione dei suoi beni, denunciando le nuove autorità tunisine per averglieli confiscati. Nel comunicato, Azoury riferisce le parole del suo assistito che “condanna l’azione illegale delle autorità tunisine perché – avvalendosi di un decreto firmato il 14 marzo 2011 dall’allora presidente ad interim Fouad Mebazaa – hanno confiscato tutti i suoi beni mobili e immobili tra cui l’abitazione privata”. Secondo la legge – prosegue – non è infatti possibile confiscare nulla ad alcuno se non dopo un processo equo, che garantisca all’imputato il diritto di difesa, e una relativa sentenza del tribunale”.
Nel comunicato, ovviamente, non viene ricordato che Ben Alì , la moglie e i figli sono scappati per non comparire davanti ai giudici. I tribunali del Paese hanno infatti emesso numerose condanne contro l’ex presidente accusato di vari reati: appropriazione indebita, detenzione illegale di armi e stupefacenti, frodi fiscali e abuso di potere, solo per citare i più gravi. Parte di queste accuse peserebbero anche sulla moglie che, prima di fuggire, aveva avuto la lucidità e la sfrontatezza di farsi portare nella banca centrale di Tunisi per arraffare decine di lingotti d’oro. Dopo la rivoluzione tutti i beni della rapace famiglia sono stati confiscati, incluse le aziende di famiglia che controllavano il novanta per cento dell’economia tunisina. Il suo patrimonio è valutato intorno agli 11 miliardi di dollari, ma, secondo alcuni analisti, altri 6 miliardi sarebbero nascosti in conti segreti nelle banche di mezzo modo. Una organizzazione non governativa tunisina ha chiesto di sbloccarli affinché possano rientrare in patria dove la situazione economica è ancora critica per la fuga degli investitori e dei turisti e la disoccupazione “endemica”. Milioni e milioni di dollari sarebbero dunque finiti in Svizzera, in Argentina e nei paradisi fiscali delle Cayman e delle isole Vergini, sotto la giurisdizione inglese ma anche in Qatar e negli Emirati Arabi.
L’organizzazione non governativa per la trasparenza fiscale tunisina (Attf), ha chiesto aiuto ai governi di questi Paesi per rintracciare l’iperbolico malloppo. Nelle banche elvetiche sarebbero annidati circa 41 milioni di dollari, anche se la stessa ATTF ha ribadito che si tratta di una goccia nell’oceano. “L’opinione pubblica è arrabbiata per la mancanza di cooperazione di questi Paesi – ha detto al quotidiano inglese Guardian, Sami Remadi, a capo dell’Ong- perché non è solo una questione di soldi bensì di dignità. Ho detto alle autorità britanniche che i tunisini non vogliono essere trattati come cittadini di seconda classe. “E’ una grave ingiustizia che La Tunisia, dove mancano servizi, infrastrutture e diritti civili, non possa recuperare buona parte della ricchezza pubblica che in 23 anni le è stata rapinata dal clan di Ben Alì e dei Trabelsi”, ha concluso. I cinque figli di Ben Alì sarebbero in Arabia Saudita e a Dubai. Finora solo alcuni parenti di Leila Trabelsi sarebbero finiti in carcere. Da ieri, a Tunisi, sono in corso manifestazioni e sit in di protesta davanti all’ambasciata saudita: i genitori, i fratelli e le mogli dei “martiri” della rivoluzione chiedono l’estradizione dell’odiata coppia di despoti. Ma, almeno Ben Ali e consorte – di sicuro per viltà e opportunismo ma al contrario di Saddam, Gheddafi e Assad – con la loro fuga hanno evitato che la Tunisia dovesse contare molti più morti.