Non ha fatto una piega la sorella di Zhou Zheng, il cittadino cinese morto il 4 gennaio con la figlia in una rapina nel quartiere romano di Torpignattara nel primo commento dopo il ritrovamento del cadavere di uno dei due omicidi: “La notizia ci ha dato un certo sollievo”, ha spiegato senza battere ciglio ai cronisti. Mohamed Nassiri, 30 anni, con diversi precedenti per rapina e furto, uno dei due ricercati per il duplice omicidio, ha terminato la sua fuga nei peggiore dei modi, in un casolare abbandonato al chilometro 14 di via Boccea, in piena campagna romana.
Suicidio, spiegano con convinzione i Carabinieri, smentendo le voci che subito si sono diffuse nelle strade della Casilina, tra i piccoli negozi etnici, le bische e i tanti money transfer. Qui tutti dicono che sarebbe stata la mafia cinese a “colpire” prima della giustizia.
Il corpo dell’uomo era appeso ad una corda legata ad un gancio e la causa della morte, secondo la visita esterna, sarebbe l’impiccagione. Nessun segno di violenza è stato riscontrato durante i primi rilievi. Mohamed Nassiri era alto quasi un metro e novanta e robusto: una qualsiasi forma di coercizione avrebbe lasciato dei segni.
Il cadavere è stato ritrovato domenica mattina da un gruppo di persone che frequentano la zona per esercitarsi nel “soft air”, i giochi di guerra con l’uso di armi ad aria compressa.
I primi particolari che emergono in queste ore – mentre negli uffici della Procura a Piazzale Clodio è un corso un vertice tra i magistrati e il comando provinciale dei carabinieri – sono però ancora densi di punti interrogativi. A cominciare dalla distanza notevole dal luogo del duplice omicidio. Non è infatti chiaro come l’uomo, inseguito da centinaia di agenti delle forze dell’ordine, sia arrivato in questa zona della campagna romana. La morte sarebbe poi avvenuta, secondo la prima ricostruzione medico-legale, circa tre giorni fa. Ovvero a ridosso del capodanno cinese, una coincidenza che a Torpignattara ha subito fatto immaginare scenari da spy story in pieno stile Chinatown.
Nassiri aveva con sé il suo cellulare, che da quanto emerge era rimasto acceso per diverso tempo dopo la rapina del 4 gennaio, e nelle tasche gli è stato trovato qualche centinaio di euro.
Di certo sapeva di essere braccato, l’operazione di accerchiamento dei Carabinieri aveva tagliato ogni possibile contatto con le comunità nordafricane. E anche l’ipotesi di cercare di raggiungere il Marocco era di fatto impraticabile. Nel suo paese di origine Mhoamed Nassiri avrebbe rischiato la pena di morte, prevista per i casi di rapina a mano armata e di omicidio.
Ora gli sforzi degli inquirenti sono tutti concentrati sul secondo ricercato, il più giovane.