La notte di venerdì sulla nave della Costa crociere gli ufficiali di bordo iniziano le operazioni di evacuazione prima dell'ordine di Schettino. Che poco dopo fuggirà con una scialuppa di salvataggio disobbedendo all'ordine della Capitaneria di ritornare a bordo
Un doppio ammutinamento: il personale di bordo che esautora dal ruolo il comandante in fuga e il comandante stesso che viene “licenziato” dalla Capitaneria di porto: “Lei non è sulla nave, ora gli ordini siamo noi a darveli”. Francesco Schettino finge di ascoltare, ma nel frattempo prende un taxi, si fa offrire un caffè e poi trova riparo all’hotel Bahama, stamberga a due stelle, l’unica aperta nei mesi invernali.
La nave a quel punto non sappiamo più a chi sia in mano: se all’equipaggio o alla Capitaneria di porto di Livorno. Oppure ai gigliesi, così si chiamano gli abitanti dell’isola del Giglio, soccorritori improvvisati. Gente che è nata in mare e probabilmente, dal punto di vista pratico, ne sa molto di più dell’equipaggio stesso, mille persone, di cui il 90 per cento addetti ai lavori più umili, lavanderia, cucine, servizio ai tavoli. Gente da 700 euro al mese, vitto e alloggio compreso.
Tutto lasciato all’improvvisazione. E’ così che inizia quello che sarà un doppio ammutinamento. Dopo un incidente che non ha nessuna spiegazione logica. I carabinieri ci hanno portati nel punto esatto dove la nave ha colpito lo scoglio, trascinandosene via un pezzo. Uno scoglio, che la storia o la leggenda, dice di aver bloccato secoli fa più di una volta le navi dei conquistatori che arrivavano dal mare. Una secca che, oggi, dotati di Gps, carte nautiche elettroniche, radar, computer, è stato sicuramente segnalato. Ma il comandante aveva dato l’ordine dell’inchino, il saluto, e aveva lasciato i suoi ufficiali al timone con l’ordine di navigare a vista. Anche perché, a quella distanza, i computer sarebbero impazziti, i segnali acustici avrebbero avvertito del pericolo. Il pericolo della costa troppo vicina, ma anche di quello scoglio.
Noi ci siamo tornati nel punto esatto dove la nave ha urtato, a Punta Torricella. Affiora un metro e mezzo la secca, è visibile, di giorno, a occhio nudo, la notte meno, ma le mappe la indicano. In quel punto – e noi lo leggiamo sulla carta nautica della barca dei carabinieri – l’acqua ha un fondale tra gli otto e i cinque metri. E il pescaggio del Concordia è di almeno 10 metri. Come far passare una corda di venti centimetri nella cruna di un ago. Il risultato è scontato.
Ma in quel momento – ed è l’unica ipotesi concreta – nessuno probabilmente lo vede. Chi naviga – lo sta facendo il capitano della barca dei carabinieri sulla quale siamo imbarcati – la prima cosa che fa è consultare le carte nautiche, misurare i fondali. Capire se da lì si può passare o meno. Sul Concordia tutto questo non è avvenuto. Hanno continuato in quella rotta (posizione, indica il Gps dei carabinieri, Nord 42.21577 , Est 01055.589) dove, se non avessero urtato contro lo scoglio che emerge, sicuramente la nave si sarebbe incagliata. Non sappiamo come sarebbe andata a finire, ma sempre di incidente o naufragio i giorni dopo sul giornale si sarebbe parlato.
Perché allora? E’ uno dei tanti misteri dell’ammutinamento del Concordia. Come resta un mistero il numero dei dispersi. La Costa, oltre a non aver ancora fornito le planimetrie della nave ai soccorritori, non è ancora stata in grado di capire quante persone ci fossero a bordo di quella crociera. Tanto che il numero dei dispersi sale e scende a seconda dei giorni. 41 sabato, 17 lunedì, per poi tornare ai 29 di questa notte. L’ultimo dato. Ma che sicuramente varierà. Anche la Capitaneria di Porto sa bene che il personale di terza classe, quello composto da filippini, cinesi e sudamericani, potrebbe essere molto più alto. E non è detto che tutti lavorassero con un regolare contratto. Ipotesi che la Costa smentisce con forza, ma che con il passare delle ore negli inquirenti si fa sempre più convinzione.
Noi proseguiamo il viaggio attorno al relitto. Il Concordia è adagiato a 90 gradi, ma ci sono volute ore prima che finisse così. Sullo scafo ha un pezzo di scoglio di Punta Torricella, appunto. Quello stesso scoglio che ha aperto una falla e si è attaccato come potrebbe fare un riccio. Molti vetri degli oblò sono sfondati, in acqua ci sono le corde (cime, si dice) alle quali non sappiamo chi fosse appeso. Forse qualcuno che non è mai stato salvato, e questo il mare soltanto può dircelo.
Sulla parte semi immersa appare il tetto di cristallo, una sorta di giardino d’inverno a metà nave, il punto luce da dove ammirare il sole o le stelle. Quello ha resistito. E’ intatto. Ma è bagnato dall’acqua, non più dalla luce.
I soccorritori stamani hanno ripreso il loro lavoro. Sott’acqua, dentro le cabine. Un lavoro estenuante, e che soprattutto richiede molto tempo, dalle 3 alle cinque ore per ispezionare una cabina. E ce ne sono 1500. Fare i conti di quanto tempo potrebbe servire è semplice: settimane è poco, mesi molto più probabile.
La nave che per esser bella era bella, si è ormai inserita nel paesaggio. Poco male, dice chi vive sull’isola, “perché pesa 115 mila tonnellate e da lì non si muove, questo anche con la peggiore delle mareggiate. E magari i turisti vengono a visitarli. Buttali via in questi periodi di crisi. Ma c’è un ma: l’incognita del carbirante. Dovesse cominciare a fuoriuscire, addio Giglio, addio vacanzieri, addio economia.