Le vicende di Mps e di Unicredit confermano quanto sia opportuna la separazione tra fondazioni e banche conferitarie. Le fondazioni potrebbero perseguire i loro obiettivi statutari. E migliorerebbe la governance delle banche, aprendo a soggetti che hanno come obiettivo primario la massimizzazione del loro valore. È una riforma degli assetti proprietari del nostro capitalismo utile ora, nell’immediato della crisi, e dopo, quando sarà finita. Perché renderebbe più efficienti e più stabili le banche italiane, contribuendo al rilancio di tutto il nostro sistema produttivo.
di Tito Boeri* e Luigi Guiso** (lavoce.info)
Da tempo sosteniamo che è opportuno che le fondazioni bancarie smettano di esercitare un controllo sulle banche conferitarie e perseguano invece strategie di gestione della loro dotazione mirate a ottenere il massimo rendimento finanziario con il minor rischio possibile. È questa la strategia di gestione che meglio garantisce il perseguimento degli obiettivi sociali delle fondazioni. È anche la strategia che consentirebbe di migliorare la governance delle banche, facendo posto a soggetti che hanno come obiettivo primario la massimizzazione del loro valore anziché altri fini.
Un pessimo investimento
Le fondazioni sono, infatti, dei cattivi partecipanti al capitale delle banche perché, portando con sé il bagaglio ingombrante della politica, hanno incentivi distorti e finiscono spesso per esercitare poco monitoring sugli istituti e per indirizzarli verso strategie non compatibili con la massimizzazione del valore. Come insegna il caso della estromissione di Alessandro Profumo, quando Unicredit, l’unica banca multinazionale italiana, fu lasciata senza guida (e senza strategia).
Al tempo stesso, per una fondazione detenere partecipazioni rilevanti nella banca conferitaria comporta una eccessiva concentrazione del rischio, esponendola alle fluttuazioni idiosincratiche della profittabilità della banca stessa. Questo fa perdere benefici di diversificazione senza ottenere un compenso in termini di ritorno finanziario, dato che le banche italiane non appaiono in grado di offrire, e non lo saranno per molto tempo, dividendi (o comunque dividendi di un certo rilevo) ai propri azionisti.
Un bell’esempio è offerto dalla fondazione Mps. Ha un patrimonio di 5,4 miliardi di euro al valore di carico, investiti all’89 per cento nel Monte Paschi di Siena di cui detiene il 45 per cento delle azioni ordinarie e quasi il totale di quelle di risparmio e privilegiate. Nei due anni passati, stante la crisi del settore, ha smesso di fare accantonamenti e avuto un rendimento del patrimonio dell’1,87 per cento nel 2009 e dello 0,68 per cento nel 2010. Nel 2011 andrà peggio. Ai prezzi di mercato di oggi, il valore del patrimonio è tuttavia intorno ai 300 milioni. Se nel 2007 avesse investito l’intero patrimonio nell’indice Mib oggi il valore degli asset della fondazione sarebbero intorno a 1,6 miliardi di euro – cinque volte tanto il valore corrente. Ovviamente, questo minaccia di compromettere la possibilità per la fondazione di raggiungere i suoi obiettivi statutari.
Coerentemente con questi rilievi, abbiamo sostenuto su questo sito che le fondazioni bancarie dovrebbero investire su portafogli diversificati anziché cercare in tutti i modi di mantenere il controllo delle banche conferitarie. L’obiezione allora mossa alla nostra proposta era che, pur essendo in linea di principio corretta, avrebbe privato le banche di capitali, rendendole ancora più vulnerabili in una fase di grande difficoltà. A noi sembra, invece, che le vicende Monte dei Paschi di Siena e Unicredit delle ultime settimane dimostrino esattamente il contrario: è proprio l’abbraccio mortale tra banche e fondazioni che sta mettendo in seria difficoltà sia le une che le altre. Partiamo dal caso Mps, per poi occuparci di Unicredit.
Il caso Mps
Fondazione Mps si è indebitata pur di non diluire la sua quota nella banca conferitaria e questo ha aggiunto ai problemi di patrimonializzazione della banca senese quelli di un piano di rientro del debito della fondazione che si annuncia molto complesso e di difficile attuazione, tant’è che la scadenza per la sua presentazione è stata recentemente prorogata, prendendo atto dell’impossibilità di definirlo entro gennaio come inizialmente previsto. La resistenza della fondazione a diluire la propria quota e la ferma intenzione di non scendere al di sotto del 33 per cento che le garantisce la possibilità di esercitare il controllo sulle assemblee straordinarie ostacolano la ricapitalizzazione della banca e, al tempo stesso, impediscono alla fondazione di varare un serio e credibile piano di rientro del debito. Insomma, l’abbraccio fra banca e fondazione è di quelli mortali.
Il caso Unicredit
Il caso Unicredit è diverso, ma comunque eloquente riguardo al ruolo perverso giocato dalle fondazioni nella ricapitalizzazione delle nostre banche. Unicredit ha perso da inizio 2012 quasi il 60 per cento della propria capitalizzazione di borsa. Contrariamente a quanto sostenuto dall’avvocato d’ufficio delle fondazioni, Massimo Mucchetti, non si tratta di movimenti speculativi che andrebbero bloccati proibendo le vendite allo scoperto. Il fatto è che le fondazioni sono chiamate a fare la parte del leone nell’aumento di capitale, dovendo contribuire con più di 700 milioni. E in questi giorni non hanno certo favorito l’operazione di rafforzamento del capitale, non lesinando critiche al chief financial officer di piazza Cordusio, Marina Natale, per il modo in cui l’aumento è stato strutturato. Per sopravvivere, le fondazioni hanno poi dovuto liquidare posizioni nel momento peggiore per la banca conferitaria. La Fondazione Cariverona, ad esempio, ha ceduto sul mercato pacchetti consistenti (si parla dello 0,7 per cento del capitale). Altre fondazioni minori (Fondazione Manodori e Carimonte), per crearsi la liquidità necessaria a partecipare all’aumento di capitale, avrebbero venduto una fetta consistente dei diritti d’opzione, approfittando dell’elevato valore di questo strumento all’avvio delle contrattazioni. E hanno comunque annunciato che sottoscriveranno solo in parte l’aumento di capitale dando un pessimo segnale ai mercati. Tutto questo indica le grandi difficoltà in cui si trovano le fondazioni bancarie a seguito della forte concentrazione del loro portafoglio sulla banca conferitaria. Ma conferma anche che le fondazioni sono una “passività” per la banca perché vendono proprio nel momento peggiore rischiando di compromettere un’operazione delicata quanto fondamentale per le sorti di una banca, quale l’aumento di capitale.
Al di là dei casi specifici
La lezione generale da trarre da questi episodi è che la presenza determinante delle fondazioni nel capitale di rischio delle banche rende più difficile la ricapitalizzazione di queste ultime, proprio in un momento in cui agli istituti di credito viene richiesto di aumentare i requisiti di capitale. Il fatto è che le fondazioni sono, per definizione, utilizzatrici di reddito anziché generatrici di flussi di cassa. Il reddito che utilizzano per il conseguimento delle finalità statutarie è lo stesso che produce la banca in cui investono; se quest’ultima ha bisogno di nuovi apporti, questi non possono certo arrivare dalle fondazioni che non hanno fonti alternative di generazione di cash flow. Di conseguenza, le fondazioni non possono intervenire per salvare il proprio investimento e, se lo fanno usando parte della propria dotazione, rischiano di affondare assieme alla banca che vorrebbero salvare compromettendo le finalità sociali per cui erano state create.
Al tempo stesso le fondazioni, per evitare di essere diluite e perdere l’unica cosa che loro interessa – potere e controllo all’interno della banca – possono ritardare e bloccare l’apporto di capitale esterno; oppure è la stessa presenza delle fondazioni e la natura degli interessi da loro rappresentati a scoraggiare l’arrivo di investitori privati, con disponibilità di capitale, che, in assenza di azionisti ingombranti e poco interessati alla massimizzazione del valore della banca, avrebbero probabilmente contribuito all’aumento di capitale.
Per tutti questi motivi, la separazione fra banche e fondazioni non è più rinviabile. È una di quelle riforme degli assetti proprietari del nostro capitalismo che serve tanto nell’immediato della crisi che quando sarà finita. Il ministro Passera, che conosce per esperienza diretta i problemi, dovrebbe impegnarsi a fondo in questa riforma essenziale per rendere al tempo stesso più efficienti e più stabili le banche italiane, contribuendo al rilancio di tutto il nostro sistema produttivo.
* Tito Boeri, Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. Oggi è professore ordinario all’Economia Bocconi, dove ha progettato e diretto il primo corso di laurea interamente in lingua inglese. E’ Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell’economia di Trento e collabora con La Repubblica. I suoi saggi e articoli possono essere letti su www.igier.uni-bocconi.it.
** Luigi Guiso è professore di Economia allo European University Institute, Firenze. Ha lavorato come economista per molti anni al Servizio Studi della Banca d’Italia occupandosi di macroeconomia, politica economica e analisi della congiuntura. E’ fellow del CEPR e direttore del Finance Program, e fellows del Luigi Einaudi Institute for Economics and Finance. Gli interessi correnti di studio e di ricerca vertono sui campi dell’economia finanziaria, delle scelte finanziarie delle famiglie, della macroeconomia, dei legami tra economia e istituzioni. temi recenti di ricerca includono l’effetto della cultura sull’economia e le origini del capitale sociale.